venerdì 14 ottobre 2011

Il Bon ton della parola



(foto da internet)







«Andiamo a passeggio: ho voglia di una cazzata siciliana e poi voglio vedere se trovo un bel paglio di scarpe». Salta all’occhio, anche a uno straniero, che questa frase è grammaticalmente scorretta. Eppure non è strano vederla scritta nella bistrattata, e sempre più barbara, lingua di Dante.



Tutti questi strafalcioni sembrano essere gli inconvenienti della comunicazione al tempo di Facebook, quelli che il linguista Stefano Bartezzaghi mette al centro del suo pungente e spassoso saggio "Come dire" (edito da Mondadori), che va inteso non solo come l'abusato tormentone per prendere tempo nei momenti di afasia, ma anche in senso letterale, come un galateo e bon-ton della parola.








(foto da internet)







Secondo lui oggi, come nell'abbigliamento - dove dal vestito della festa si è passati alla tuta forever - anche nel linguaggio c'è uno scivolamento in basso. Se fino a poco tempo fa il "tu" era usato solo con parenti, bambini e amici intimi, e il turpiloquio solo con amici intimi e mai con persone di sesso opposto, adesso il "tu" è debordante, il turpiloquio è una presenza constante in Parlamento e anche le mamme con neonati dicono moltissime parolacce. Nei new media si trascurano ortografia e sintassi, che sempre più inseguono il linguaggio parlato, cercando l'effetto e la semplificazione a tutti i costi. Le sfumature non interessano più a nessuno!








(foto da internet)







Nell'era della comunicazione globale anche il rischio di dimostrare la propria ignoranza cresce a vista d'occhio. Su Facebook è nato un gruppo che si chiama "Scartare corteggiatori e potenziali amanti per gli errori di grammatica", che mette in fila perle come queste: "E' nel mio carattere: quando qualcosa non va, io sodomizzo", piuttosto che "Ho un nuovo paglio di scarpe" e "Come stai? Sempre l'ostesso".
E ancora: i ristoranti sfoggiano leziosi menù lunghi come romanzi, in cui il budino è una "formella di biancolatte con pioggia di cacao forte, stille di caramello e ribes nero", o tradotti male ("dessert: la cazzata siciliana").






(foto da internet)







Una curiosità: persino dar il nome a un figlio sarebbe per l'autore "uno dei contributi alla lingua nazionale più importanti che un cittadino medio può dare". Ebbene, se nel boom economico andava il nome con un sound di prestigio, tipo Massimiliano e Sebastiano, l'esotismo dei Settanta ha prodotto Katia e Samantha fino agli odierni Kevin, Ariel e, il più bello, Maikol(sì, scritto proprio così). In realtà, è tutto sintetizzato nei nomi di una delle più celebri famiglie italiane, gli Agnelli. Il capostipite era Giovanni, poi Gianni e John, che, a sua volta, i suoi figli l'ha chiamati Leone e Oceano.



Noi, invece, rimaniamo legati alla tradizione e ci vogliamo chiamare Ugo!



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