martedì 28 febbraio 2012

Periodo ipotetico



Per migliorare il periodo ipotetico:

Se fossi padre, nel regno di Op, dovrei attenermi agli orari di entrata e uscita. Ogni sera saluterei mio figlio con un bacio sulla fronte, mia moglie con un abbraccio e tornerei da solo, a casa, guidando sfinito e sovrappensiero, cenando con un panino e poi a letto, senza riuscire a prendere sonno. Scrivendo sms, preparando e disfacendo valigie, pensando con angoscia e tormento a chi resta a dormire sulla branda pieghevole del regno di Op.
Se fossi padre, mi sveglierei quando fuori è ancora buio e la mattina alle 7 passerei dal bar del Grande Ospedale, mi farei largo tra la folla appoggiata al bancone, ordinerei un cappuccino a portar via nel bicchiere di plastica e camminerei veloce, verso l’ascensore, attento a non far rovesciare la schiuma. Poi suonerei il campanello davanti alla porta a vetri bianca e blu del regno di Op, saluterei le infermiere al cambio turno ancora con le divise in mano, i portantini dietro al carrello della colazione, gli altri papà tornati alla base, ed entrerei in stanza, finalmente sollevato, finalmente al mio posto. Anch’io.
Se fossi padre, a ogni ricovero nel regno di Op, mi manderebbero subito al terzo piano a sbrigare le pratiche amministrative, anche se vorrei stare lì al decimo, in medicheria, con mio figlio e con sua madre. Sapere come va la febbre, se la medicazione del catetere è a posto, se le complicazioni alla terapia sono normali, se la frequenza cardiaca va bene, che farmaci metteranno in flebo, a che ora passeranno i dottori. “Vada prima ad aprire la cartella del ricovero in amministrazione, papà”, mi ripeterebbe bonariamente una delle infermiere di Op. E se fossi padre, cuore in gola e documenti alla mano, farei un bel respiro e, senza scelta, andrei.
Se fossi padre penserei a rinnovare l’abbonamento al parcheggio del Grande Ospedale a fine mese, a comprare le bottiglie di latte in farmacia e i pannolini al supermercato, a prendere le ricette dal pediatra, a fare la coda alla Asl, a sistemare le cose al lavoro, ad aggiornare i nonni sull’ultima ecocardio e sulla prossima Tac.
Se fossi padre nessuno parlerebbe del mio dolore. Verrebbe prima quello della mia donna, poi quello del sangue del mio sangue. E imparerei anch’io a pensare così: prima la mamma, poi il piccolo. Solo dopo, io: così impotente, così accessorio, così incapace di proteggerli, così obbligato a proteggermi. Se fossi padre, nel regno di Op, mi sentirei in colpa, non mi sentirei abbastanza, mi suonerei fuori posto, vorrei fare di più. Immotivatamente, certamente: se fossi padre starei più o meno così.
E’ per questo che penso che sia meglio essere madri, nel regno di Op. Incrollabili, onnipresenti e fiere. A volte fragili, altre volte d’acciaio, con le radici ben piantate a terra, la comprensione di tutti attorno, l’assistenza costante, la solidarietà. E i padri a fianco a cui appoggiarsi. Parafulmini silenziosi, discreti e laterali, a bussare piano alla porta, la mattina. A chiederci com’è andata la notte, a portarci una maglietta di ricambio. Un giornale fresco di stampa, un cornetto caldo, un tubetto di dentifricio. Un bacio, un caffè.

lunedì 27 febbraio 2012

In ricordo della scuola genevose


Don Gallo e Gino Paoli sono i protagonisti del film di Nicola Di Francescantonio. Ambientata tra i vicoli e il porto, la pellicola racconta una storia in parte vera, in parte visionaria in cui grazie agli effetti speciali, riappaiono tutti i grandi della canzone d'autore: Luigi Tenco, Bruno Lauzi, Umberto Bindi e Fabrizio De André.

L’ultimo ciak è previsto per il 31 gennaio, negli studi del Cineporto di Cornigliano, nel ponente genovese: Umberto Bindi e Luigi Tenco, Bruno Lauzi e Fabrizio De Andrè approdano via mare direttamente in via del Campo, dove il mare non c’è mai stato. Anche se arrivava, davvero, appena un po’ più in là, in via Prè.
Una scena un po’ felliniana, resa possibile dal mago degli effetti speciali Sergio Stivaletti (ha lavorato agli horror di Lamberto Bava e Dario Argento, ma anche al Pincchio di Benigni) che, mescolando magicamente foto d’epoca e persone reali, riporta a Genova i suoi cantori più amati e li fa incontrare con chi di quella schiera fece parte, come Gino Paoli e Paolo Villaggio (suo è il testo del “Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers” di De Andrè).
Nicola Di Francescantonio, sessantenne genovese, una vita in Rai, è il regista di “Una canzone per il paradiso”, film curioso, un po’ fiction un po’ documentario, girato fra i caruggi (vicoli) del centro storico e gli studi di Cornigliano, con attori in carne e ossa e fantasmi del passato. Un viaggio nel tempo che celebra Genova e i suoi poeti musicisti e dove lo spettatore è accompagnato da un doppio Virgilio: Gino Paoli, unico superstite del gruppo storico, e il “prete da marciapiede” Don Andrea Gallo, genovese doc, più altri testimoni come Gianfranco Reverberi, il produttore musicale padrino di gran parte di quei cantautori.
Nel film ci sono il porto e via Prè, le puttane e via del Campo, il popolo dei caruggi e i ragazzi che, senza saperlo, quasi cinquant’anni fa scrivevano una pagina importante della storia della musica italiana. Non c’è materiale di repertorio, nel film, ma tanta musica, la loro, che fa da colonna sonora a una storia sospesa fra il reale e il fantastico, fra ieri e oggi.
È un film nel film, dove un regista vuole raccontare quel mondo e chiede aiuto a Paoli e a Don Gallo per ricostruire storie e personaggi. Nel loro pellegrinare per le viuzze del centro (i cui monumenti si animano in un visionario gioco digitale) il prete e il cantante ricordano così episodi leggendari eppure reali. Come il funerale del venditore di limoni: il vecchietto non aveva un soldo e a fargli un bel funerale pensarono le prostitute sue amiche. Ed ecco che il set si trasforma: si torna indietro nel tempo, i caruggi si popolano degli abitanti di allora e la bara del limonaio, che non riusciva a passare dalle strette scale del vecchio palazzo, viene calata dal terzo piano, fra le grida di incoraggiamento della gente del quartiere.
«Ci fan tornare indietro Gino, ma tu lo sai com’ è il cinema?». Camminano da porta di Vacca in via del Campo, don Andrea Gallo e Gino Paoli, “ambasciatori” di Genova, in un’altra scena. «Janua significa porta, se Genova avesse mantenuto la sua vocazione sarebbe ancora una grande città” dice Paoli». E, ancora: «I genovesi una volta erano saggi, lavavano la città con l’acqua di mare per non sprecarne. Oggi è una città che pensa all’ apparenza. La bellezza di una città è la sua gente». «Nei vicoli si trovava di tutto, c’erano gli artigiani, i commercianti, come si vede dai nomi delle vie: salita Pollaiuoli, vico Indoratori, via Orefici» ricorda Don Gallo. «Era ed è il centro storico più grande d’Europa».
Nei quartieri “dove il sole del buon Dio non dà suoi raggi” e dove un tempo c’erano le “graziose” cantate da De Andrè, oggi gli immigrati fanno la fila davanti alle decine di “phone center” e gestiscono le numerose botteghe di “kebab” e cianfrusaglie. Ma questa, in fondo, è la vocazione storica di Genova, città di marinai e di forestieri che vi approdavano da tutto il mondo. A scomparire, invece, sono stati i cantautori con la loro celebre scuola. Ammesso che sia mai esistita, visto che di genovesi autentici, in quel gruppo, ce n’erano pochi: Paoli è nato a Monfalcone, Tenco a Cassine, in Piemonte, Lauzi addirittura all’Asmara, Eritrea. E se pure a Genova tutti loro hanno vissuto, paradossalmente la fortuna è arrivata quando se ne sono andati, chiamati a Milano da Reverberi che, sostiene Paoli, «non aveva alcuna fiducia nelle nostre capacità artistiche, aveva nostalgia di Genova e bisogno di compagnia».
Sarà, ma quella truppa di amici che si incontrava in locali come la “Pensione del Corso” e il ristorante “Dal Genovese” (quest’ultimo, chiuso da anni, è stato fedelmente ricostruito per ambientarvi una delle scene clou del film) ha portato con sé un pezzo di Genova che ha permeato la loro musica. E ora a Genova tornano, sia pure virtualmente.

venerdì 24 febbraio 2012

Un aiutino per i nervosi



Se la musica per voi è una droga avete perfettamente ragione. Imagine di John Lennon? Dopamina pura. Il trillo che Bernard Herrmann fa vibrare nello "Psycho" di Alfred Hitchcock? Noradrenalina. La prima sviluppa l'ormone della serenità, la seconda quello dello stress. Ma se la musica è chimica vorrà dire che c'è una canzone per ogni stato d'animo? Proprio così. Anzi di più: non solo ogni canzone rappresenta un umore ma possiamo utilizzare noi stessi le canzoni che vogliamo per modificare il nostro mood.

Farmacia canzonissima. Questo almeno è quanto sostiene un libro appena uscito negli Usa dal titolo che è tutto un programma - ovviamente discografico: "La tua playlist ti può cambiare la vita". La playlist, si sa, è la raccolta personalizzata di canzoni: un'espressione diventata popolarissima negli ultimi anni grazie all'espansione della musica digitale e dei lettori come gli iPod e gli mp3, che ci permettono appunto di organizzare la nostra discoteca dando dei nomi particolari a dei programmi particolari.

E così come possiamo raccogliere le nostre canzoni in una playlist, chessò, di musica da ballare, o musica per bambini, o musica per viaggiare, gli psicologi autori di questo nuovo studio ci suggeriscono adesso di costruire una playlist per migliorare il nostro benessere.

Galina Mindlin, Don Durousseau e Joseph Cardillo sono tre big della psicologia e della divulgazione. E lo studio si presenta proprio come un manuale: "10 modi per cui la vostra musica favorita può rivoluzionare la vostra salute, memoria, organizzazione, attenzione e molto di più". Gli americani, si sa, sono fatti così: tutta ginnastica, anche per la mente. Ma lo dice anche quello snob inglese di mister Sting: "La vostra mente è uno strumento potente e questo libro vi aiuterà a rimodellare il ritmo della vostra vita".

Naturalmente nelle playlist c'è anche lui: Every Breath You Take dei suoi Police è - come Imagine - tra i brani che mettono calma ("grazie a quel ritmo trascinante che fa rilassare corpo e mente"). Altro esempio di canzone che riduce l'ansia? New York New York: sì, proprio l'inno di Frank Sinatra alla città che non dorme mai è al contrario estremamente rilassante per via di quel ritmo dondolante (27 beat al minuto, dicono gli esperti) che ammalia. Per non parlare di quella canzone positiva già nel titolo, Here Comes The Sun dei Beatles: come fai a non rasserenarti al pensiero del sole che arriva?

E se i Favolosi Quattro sono ideali per il relax, i loro sempiterni rivali serviranno naturalmente a ridarci la carica: e Brown Sugar dei Rolling Stones, che mica tanto velatamente già accennava appunto all'aiutino sintetico, è infatti nella lista delle canzoni che danno energia. Dove i nostri esperti hanno moltiplicato davvero gli sforzi: costruendo playlist particolari che creano uno stato di allerta che aumenta proporzionalmente con la velocità appunto dei beat per minuto, in codice Bpm.

Così da Pride (The Name of Love) degli U2, 106 Bpm, si finisce a Don't Phunk with My Heart del Black Eyed Peas, 130 Bpm, passando per Lady Madonna sempre dei Beatles, 110. Oppure da Back on the Chain Gang dei Pretenders, 138 Bpm, l'ideale da mettere su per ritrovare  l'energia per mettere a posto la casa, si sale fino a The Power of Love di Huey Lewis and the News, 155 Bpm.

E' proprio nella costruzione delle playlist l'aspetto scientifico più interessante di tutta l'operazione. In fondo lo dice anche il detto popolare: canta che ti passa. E un altro scienziato come Daniel Levitin aveva già chiarito in "Sei canzoni" che tutta la musica di questo mondo si potrebbe appunto ridurre a sei prototipi emozionali.

Ma i tre psicologi vanno oltre: notando come ritmo, armonia, risonanza e sincronia sono fra l'altro termini musicali che vengono sorprendentemente usati anche nello studio del cervello. E che i ritmi del cervello, viceversa, sono organizzati con gli stessi principi della musica. Noi stessi, dicono, siamo musica: "La prima musica codificata nella nostra memoria è proprio la prima vibrazione che ci ha generato: il ritmo delle nostre prime cellule". "Imagine" te stesso: la droga naturale che ci portiamo dentro.

martedì 21 febbraio 2012

I cornetti caldi saranno vietati a Roma



In fin dei conti lo cantava anche Venditti che «le bombe delle sei non fanno male». Tutti schierati: clienti («a chi fa male mangiarsi un cornetto?») e gestori («così ci riducono sul lastrico») per far tornare sui suoi passi la Giunta Alemanno sull'ordinanza che da metà marzo prevede il divieto per i laboratori artigianali di vendere i propri prodotti dopo l'una di notte. Orario che potrebbe essere prolungato fino alle due e su cui le associazioni di categoria hanno chiesto all'assessore al Commercio Davide Bordoni una deroga speciale proprio per le cornetterie.

Il giudizio è unanime: «Ripensateci». Sabato. Ore due di notte. Una folla di giovani è assiepata sulle scalinate del «Sorchettaro» in via Cernaia, a due passi da Porta Pia. Antonio Lambiase sforna circa 700 «sorchette con doppio schizzo» (una sorta di lungo cornetto con una spruzzata di panna e cioccolata all'interno), cinquecento cornetti e migliaia di altri tipi di paste a notte. «Qui lavoriamo in otto - dice Lambiase - Se passano le misure previste dal Comune dovrò mandare tutti a casa e chiudere bottega». Il «Sorchettaro» apre alle undici e chiude la mattina alle sette. Massimiliano Agrestini, 22 anni, si trova spesso qui con gli amici per una piccola concessione ai peccati di gola: «Non si capisce la filosofia di queste misure, mangiare un cornetto mi pare una cosa innocua. Comprendo i divieti all'alcol ma non questi». Ancora più drastico Ivano Zacheri che con gli amici mangia una «sorchetta»: «Toglietemi tutto questo e mi sento perso, per noi ragazzi è un rito. Si dovrebbe pensare ai delinquenti e non a mettere divieti per la gente onesta».

Ma la notte è ancora giovane. Via Barletta. Vicino alla metro Ottaviano. La cornetteria «Dolce Maniera» è un'istituzione in Prati. Non tutti sono a conoscenza di quello che bolle in pentola. Federico Palumba arriva alle tre di notte per mangiare un cornetto con un amico. E non si capacita quando sente le voci preoccupate che circolano: «Non sapevo di questa ipotesi, se dovessero chiudere queste attività sarebbe assurdo. Sono allibito». «Dolce Maniera» non dorme mai. È aperta tutti i giorni. «Siamo qui da 16 anni - racconta con rammarico il titolare Antonio Sgrò - qui vengono centinaia di persone, soprattutto d'inverno. È una zona tranquilla. Mai shiamazzi o una rissa. Qui lavorano trenta persone. Bisogna pensare anche a loro».

Ma quelli più arrabbiati di tutti sono i ragazzi che passano la notte in zona Marconi. Alle quattro di sabato notte decine di macchine affollavano via Oderisi da Gubbio. Il «Cornettone» era strapieno. Non c'è un cliente che intenda rinunciare a venire qui. Adriana Capeti si sfoga mentre mangia un cornetto: «È una tradizione romana. Non la puoi cancellare. E poi io quando torno a casa a piedi sono tranquilla perché la strada è illuminata e c'è tanta gente. Con i locali chiusi sarebbe una via buia e avrei paura». Il proprietario Antonio Schina non si capacita: «Non mi pare che tutta questa gente voglia andare a dormire», commenta ironico, «se dovessi chiudere di notte - aggiunge - dovrei anche mandare a casa almeno tre persone».


domenica 19 febbraio 2012

Le propietà del caffè


Buone nuove per gli amanti della tazzina: assaporarsi un fumante, aromatico caffè può ridurre il rischio di cancro. E, più se ne beve più si riduce il rischio, tanto che con quattro o più tazze al giorno si arriva a una riduzione di quasi il 25 percento.

A godere di questo vantaggio sono tuttavia le donne che vedono mostrarsi i benefici della tazzina nel caso del cancro dell’endometrio.
È il tessuto superficiale che si trova nel corpo dell’utero, orientato verso la cavità interna, quello che viene chiamato endometrio. Detto tessuto è ricco di ghiandole ed è particolarmente influenzato dai cambiamenti ormonali che si verificano durante l’età fertile, nel periodo del ciclo mestruale. Il tipo di cancro che si sviluppa nel rivestimento dell’utero è uno dei più diffusi e invasivi tumori ginecologici. Gli scienziati associano all’aumento di rischio fattori come alti livelli di ormoni estrogeni e altrettanti di insulina nel sangue.

Gli ormoni però possono essere tenuti a bada proprio gustandosi un buon caffè. E lo dimostrano, dati alla mano, i ricercatori del Dipartimento di Nutrizione della Harvard School of Public Health (Usa) coinvolti nello “Studio Nurses’ Health”.
Coordinati dalla dottoressa Youjin Je, gli scienziati hanno analizzato i dati relativi a oltre 67mila donne di età compresa tra i 39 e i 54 anni. I risultati dello studio, precedentemente pubblicati sulla versione online di Cancer Epidemiology, Biomarkers & Prevention - di cui abbiamo dato notizia - e ora ufficializzati, mostrano in definitiva come vi sia una relazione inversa tra il consumo di caffè e i tassi d’incidenza del tumore tra le donne.

Il periodo di follow-up è durato ventisei anni – dal 1980 al 2006 – e durante questo lasso di tempo, ogni quattro anni, le donne partecipanti allo studio hanno dovuto riferire con quale frequenza consumavano caffè rispetto all’anno precedente.
Con i dati raccolti, gli scienziati hanno poi calcolato un’assunzione media cumulativa. In questo modo era possibile proiettare nel tempo un modello di consumo relativo a ogni singola partecipante.

Il caffè ha così dimostrato di fare in qualche modo la differenza: nelle donne che assumevano quattro tazze al giorno avevano avuto, in media, il 25 percento in meno di probabilità di sviluppare il cancro dell’endometrio. E questo dato valeva per coloro che assaporavano un caffè classico, con il suo normale contenuto di caffeina. Ma per quelle che invece preferivano il caffè decaffeinato cosa accadeva? Bene, anche nel caso del decaffeinato il caffè si è dimostrato un potenziale preventivo: chi sorbiva due o più tazze al giorno vedeva ridursi il rischio di cancro dell’endometrio del 22 percento – una percentuale anch’essa significativa.
Attenzione però, avvertono i ricercatori, per godere delle proprietà benefiche delle sostanze contenute del caffè non bisogna consumarlo troppo zuccherato o con l’aggiunta di grassi, poiché in questo modo si annullerebbero questi effetti positivi.

Quanto al possibile rischio legato alla elevata presenza di ormoni estrogeni, i dati raccolti hanno anche mostrato che nelle donne che consumavano più caffè questi livelli erano più bassi, rispetto alle partecipanti che bevevano poco o niente caffè.
«Questo è uno studio osservazionale – l’assunzione di caffè era auto-decisa, non randomizzata –  così il nostro studio non può dimostrare la relazione causale tra caffè e rischio di tumore dell’endometrio, tuttavia abbiamo scoperto un’associazione inversa tra caffè e rischio di tumore dell’endometrio – sottolinea Youjin Je – Quattro o più tazze di caffè possono contribuire a ridurre il rischio di tumore dell’endometrio abbassando i livelli di estrogeni e insulina che sono collegati alla carcinogenesi endometriale a causa di aumento della proliferazione cellulare e morte cellulare ridotta».

venerdì 17 febbraio 2012

Il ponte dei sospiri



Rinasce il ponte dei sospiri! l Ponte dei Sospiri è costruito in pietra d'Istria, in stile barocco, e fu realizzato agli inizi del XVII secolo su progetto dell'architetto Antonio Contin  per ordine del doge Marino Grimani, il cui stemma vi è scolpito.
Questo caratteristico ponte di Venezia, situato a poca distanza da Piazza San Marco, scavalca il Rio di Palazzo collegando con un doppio passaggio il Palazzo Ducale alle Prigioni Nuove, il primo edificio al mondo costruito per essere appositamente una prigione. Serviva da passaggio per i reclusi dalle suddette Prigioni agli uffici degli Inquisitori di Stato per essere giudicati.
Conosciuto in tutto il mondo, è fotografato dai turisti provenienti da ogni dove, dai soli due posti dai quali è osservabile, (oltre che dalle gondole) cioè dal Ponte della Canonica e dal Ponte della Paglia. Gli è stato attribuito questo nome perché la leggenda vuole che, ai tempi della Serenissima, i prigionieri, attraversandolo, sospirassero davanti alla prospettiva di vedere per l'ultima volta il mondo esterno. La leggenda però è totalmente priva di fondamento, anche perché dall'interno del ponte la visuale verso l'esterno è pressoché nulla. Il termine sospiri sta ad indicare solamente l'ultimo respiro che i condannati emettevano nel mondo libero perché una volta condannati nella Repubblica dei Dogi non si poteva tornare indietro.

giovedì 16 febbraio 2012

mercoledì 15 febbraio 2012

martedì 14 febbraio 2012

Le donne al palio



La Contrada dell'Oca a Siena,  dopo un’affollatissima assemblea nella sede cittadina, ha deciso che dal 29 aprile 2012, festa della patrona Santa Caterina, le ocaiole avranno diritto di parola, di voto, di elezione negli organi dirigenti, come in tutte le altre Contrade. Una rivoluzione. Solo una prova di civiltà e fin troppo tardiva, sarà il commento dei più, fuori Siena.
Da Milano, da Roma, ma anche dalla vicina Firenze tutto ciò sembrerà assurdo, antico, antiquato. Al pari di quei club londinesi come l’Oxford and Cambridge University club, riservato a professori e laureati delle due prestigiose università, esclusivamente di sesso maschile.
La Contrada dell’Oca ha però deciso di far entrare di pieno diritto  la forza e la passione verso il loro Palio, la loro Contrada, il loro rione, di 62 donne le quali, qualche anno fa, iniziarono una durissima guerra. Tra una battaglia e l’altra, nel 2008 il referendum voluto dai dirigenti della Contrada. Ma i fedelissimi alla tradizione vinsero sulle “suffragette”. I no alla parità furono 393, compresi i voti di 134 donne. Con le ribelli si schierò anche Aceto, al secolo Andrea Decortes, il più famoso fantino della storia, che per l’Oca ha vinto il Palio ben cinque volte. E poi si decise di passare alle vie legali: le donne andarono di fronte a un giudice civile e chiesero il rispetto dei loro diritti.

Ma il magistrato non si era pronunciato nel merito. Aveva osservato che sarebbe stata necessaria una base più larga o un mandato da parte della (centenaria) Società delle donne, abilitata a parlare a nome di tutte. È stata, invece, disse il giudice, «azionata da singole associate, una pretesa collettiva». E così ancora avanti con la battaglia in tribunale, fino alla nuova sentenza che era attesa nei prossimi giorni. Alla fine, niente più giudici e niente più sentenze. La Contrada ha deciso per conto suo, con un documento votato a grande maggioranza, di non fare più nessuna distinzione tra uomini e donne.


domenica 12 febbraio 2012

La gamugia



La gamugia lucchese, può servire da spunto per visitare questa splendida città della toscana. 
Per preparare questo piatto occorrono: quattro cipolline novelle, quattro carciofi, quattro cucchiai di punte di asparagi, quattro cucchiai di piselli freschi, quattro cucchiai di fave fresche, 100 gr di carne di vitella macinata, 50 gr di pancetta di maiale, olio extravergine d'oliva, pane casalingo, sale

Preparazione

in una casseruola rosolare la cipolla tagliata fine assieme all'olio ed alla pancetta tritata fine. quando la cipolla sarà imbiondita aggiungere la carne di vitella e successivamente le fave fresche, i piselli, i carciofi puliti e tagliati a spicchi e infine le punte di asparagi appena scottate. fare insaporire, quindi aggiungere un litro e 200 gr di brodo e portare lentamente a bollore fino a cottura delle verdure. servite la "garmugia" con crostini di pane tagliato a dadini.

mercoledì 8 febbraio 2012

World rhapsody

Il titolo è Italian rhapsody, ma in realtà si tratta di un componimento che potrebbe suonare anche da



qualche altra parte...




mercoledì 1 febbraio 2012

Il decalogo della manipolazione sociale


Noam Chomsky, linguista, filosofo e teorico della comunicazione statunitense, a seguito di un minuzioso lavoro di studio e di interpretazione di un'immensa mole di documenti, è riuscito a smascherare numerosi casi di utilizzo fraudolento delle informazioni, nonché ad elaborare un vero e proprio decalogo di manipolazione sociale da parte dei mass-media.

Il primo passo per "manipolare la massa" sarebbe la “fissazione delle priorità”: alcuni mezzi di informazione determinano una struttura prioritaria delle notizie, alla quale il resto dei media devono adattarsi. Le priorità vengono stabilite da società commerciali a redditività molto alta. L’obiettivo è quello che Chomsky definisce come “la fabbrica del consenso”, ossia un sistema di propaganda estremamente efficace per il controllo e la manipolazione dell’opinione pubblica.

Le dieci strategie di manipolazione secondo Chomsky sono le seguenti:

1. La strategia della distrazione: distogliere l’attenzione del pubblico dai problemi importanti e dai cambiamenti decisi dal “potere” con un flusso continuo di informazioni, spesso insignificanti.

2. Creare il problema e poi offrire la soluzione: si crea un problema, una “situazione” che produrrà una determinata reazione nel pubblico, in modo che sia questa la ragione delle misure che si desidera far accettare.

3. La strategia della gradualità: per far accettare una misura inaccettabile, basta applicarla gradualmente, col contagocce, per un po’ di anni consecutivi. E’ in questo modo che condizioni socioeconomiche radicalmente nuove (neoliberismo) furono imposte durante i decenni degli anni 80 e 90: Stato minimo, privatizzazioni, precarietà, flessibilità, disoccupazione in massa, salari che non garantivano più redditi dignitosi, tanti cambiamenti che avrebbero provocato una rivoluzione se fossero state applicate in una sola volta.

4. La strategia del differire: un altro modo per far accettare una decisione impopolare è quella di presentarla come “dolorosa e necessaria”, guadagnando in quel momento il consenso della gente per una sua applicazione futura. E’ più facile accettare un sacrificio futuro he un sacrificio immediato. Prima, perché lo sforzo non è quello impiegato immediatamente. Secondo, perché il pubblico, la massa, ha sempre la tendenza a sperare ingenuamente che “tutto andrà meglio domani” e che il sacrificio richiesto potrebbe essere evitato. Questo dà più tempo al pubblico per abituarsi all’idea del cambiamento e di accettarlo rassegnato quando arriva il momento.

5. Rivolgersi alla gente adulta come a dei bambini: la maggior parte della pubblicità diretta al grande pubblico usa discorsi, argomenti, personaggi e una intonazione particolarmente infantile, spesso con voce flebile, come se lo spettatore fosse un bambino di pochi anni o un deficiente.

6. Usare l’aspetto emozionale molto più della riflessione: sfruttare l’emotività per provocare un corto circuito dell’analisi razionale e del senso critico.

7. Mantenere la gente nell’ignoranza e nella mediocrità: far sì che la gente sia incapace di comprendere le tecniche ed i metodi usati per il suo controllo e il suo asservimento.

“La qualità dell’educazione data alle classi sociali inferiori deve essere la più povera e mediocre possibile, in modo che la distanza dell’ignoranza che pianifica tra le classi inferiori e le classi superiori sia e rimanga impossibile da colmare dalle classi inferiori".

8. Stimolare il pubblico ad essere favorevole alla mediocrità: spingere il pubblico a ritenere che sia di moda essere stupidi, volgari e ignoranti.

9. Rafforzare il senso di colpa: far credere all’individuo di essere esclusivamente lui il responsabile delle proprie disgrazie per insufficiente intelligenza, capacità o sforzo. In poche parole, indurre alla non-azione. (E senza azione non c'è rivoluzione).

10. Conoscere la gente meglio di quanto essa si conosca: il sistema è riuscito a conoscere l’individuo comune molto meglio di quanto egli conosca se stesso. Questo significa che, nella maggior parte dei casi, il sistema esercita un controllo maggiore ed un gran potere sugli individui, maggiore di quello che lo stesso individuo esercita su sé stesso.

Fonte: Visionesalternativas.com