Per migliorare il periodo ipotetico:
Se fossi padre, nel regno di Op, dovrei attenermi agli orari di
entrata e uscita. Ogni sera saluterei mio figlio con un bacio sulla
fronte, mia moglie con un abbraccio e tornerei da solo, a casa, guidando
sfinito e sovrappensiero, cenando con un panino e poi a letto, senza
riuscire a prendere sonno. Scrivendo sms, preparando e disfacendo
valigie, pensando con angoscia e tormento a chi resta a dormire sulla
branda pieghevole del regno di Op.
Se fossi padre, mi sveglierei quando fuori è ancora buio e la mattina
alle 7 passerei dal bar del Grande Ospedale, mi farei largo tra la
folla appoggiata al bancone, ordinerei un cappuccino a portar via nel
bicchiere di plastica e camminerei veloce, verso l’ascensore, attento a
non far rovesciare la schiuma. Poi suonerei il campanello davanti alla
porta a vetri bianca e blu del regno di Op, saluterei le infermiere al
cambio turno ancora con le divise in mano, i portantini dietro al
carrello della colazione, gli altri papà tornati alla base, ed entrerei
in stanza, finalmente sollevato, finalmente al mio posto. Anch’io.
Se fossi padre, a ogni ricovero nel regno di Op, mi manderebbero
subito al terzo piano a sbrigare le pratiche amministrative, anche se
vorrei stare lì al decimo, in medicheria, con mio figlio e con sua
madre. Sapere come va la febbre, se la medicazione del catetere è a
posto, se le complicazioni alla terapia sono normali, se la frequenza
cardiaca va bene, che farmaci metteranno in flebo, a che ora passeranno i
dottori. “Vada prima ad aprire la cartella del ricovero in
amministrazione, papà”, mi ripeterebbe bonariamente una delle infermiere
di Op. E se fossi padre, cuore in gola e documenti alla mano, farei un
bel respiro e, senza scelta, andrei.
Se fossi padre penserei a rinnovare l’abbonamento al parcheggio del
Grande Ospedale a fine mese, a comprare le bottiglie di latte in
farmacia e i pannolini al supermercato, a prendere le ricette dal
pediatra, a fare la coda alla Asl, a sistemare le cose al lavoro, ad
aggiornare i nonni sull’ultima ecocardio e sulla prossima Tac.
Se fossi padre nessuno parlerebbe del mio dolore. Verrebbe prima
quello della mia donna, poi quello del sangue del mio sangue. E
imparerei anch’io a pensare così: prima la mamma, poi il piccolo. Solo
dopo, io: così impotente, così accessorio, così incapace di proteggerli,
così obbligato a proteggermi. Se fossi padre, nel regno di Op, mi
sentirei in colpa, non mi sentirei abbastanza, mi suonerei fuori posto,
vorrei fare di più. Immotivatamente, certamente: se fossi padre starei
più o meno così.
E’ per questo che penso che sia meglio essere madri, nel regno di Op.
Incrollabili, onnipresenti e fiere. A volte fragili, altre volte
d’acciaio, con le radici ben piantate a terra, la comprensione di tutti
attorno, l’assistenza costante, la solidarietà. E i padri a fianco a cui
appoggiarsi. Parafulmini silenziosi, discreti e laterali, a bussare
piano alla porta, la mattina. A chiederci com’è andata la notte, a
portarci una maglietta di ricambio. Un giornale fresco di stampa, un
cornetto caldo, un tubetto di dentifricio. Un bacio, un caffè.
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