Don
Gallo e Gino Paoli sono i protagonisti del film di Nicola Di
Francescantonio. Ambientata tra i vicoli e il porto, la pellicola
racconta una storia in parte vera, in parte visionaria in cui grazie
agli effetti speciali, riappaiono tutti i grandi della canzone d'autore:
Luigi Tenco, Bruno Lauzi, Umberto Bindi e Fabrizio De André.
L’ultimo ciak è previsto per il 31 gennaio, negli studi del Cineporto di Cornigliano, nel ponente genovese: Umberto Bindi e Luigi Tenco, Bruno Lauzi e Fabrizio De Andrè
approdano via mare direttamente in via del Campo, dove il mare non c’è
mai stato. Anche se arrivava, davvero, appena un po’ più in là, in via
Prè.
Una scena un po’ felliniana, resa possibile dal mago degli effetti speciali Sergio Stivaletti (ha lavorato agli horror di Lamberto Bava e Dario Argento, ma anche al Pincchio di Benigni)
che, mescolando magicamente foto d’epoca e persone reali, riporta a
Genova i suoi cantori più amati e li fa incontrare con chi di quella
schiera fece parte, come Gino Paoli e Paolo Villaggio (suo è il testo del “Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers” di De Andrè).
Nicola Di Francescantonio, sessantenne genovese, una vita in Rai, è il regista di “Una canzone per il paradiso”,
film curioso, un po’ fiction un po’ documentario, girato fra i caruggi
(vicoli) del centro storico e gli studi di Cornigliano, con attori in
carne e ossa e fantasmi del passato. Un viaggio nel tempo che celebra
Genova e i suoi poeti musicisti e dove lo spettatore è accompagnato da
un doppio Virgilio: Gino Paoli, unico superstite del gruppo storico, e
il “prete da marciapiede” Don Andrea Gallo, genovese doc, più altri testimoni come Gianfranco Reverberi, il produttore musicale padrino di gran parte di quei cantautori.
Nel
film ci sono il porto e via Prè, le puttane e via del Campo, il popolo
dei caruggi e i ragazzi che, senza saperlo, quasi cinquant’anni fa
scrivevano una pagina importante della storia della musica italiana. Non
c’è materiale di repertorio, nel film, ma tanta musica, la loro, che fa
da colonna sonora a una storia sospesa fra il reale e il fantastico,
fra ieri e oggi.
È un film nel film, dove un regista vuole
raccontare quel mondo e chiede aiuto a Paoli e a Don Gallo per
ricostruire storie e personaggi. Nel loro pellegrinare per le viuzze del
centro (i cui monumenti si animano in un visionario gioco digitale) il
prete e il cantante ricordano così episodi leggendari eppure reali. Come
il funerale del venditore di limoni: il vecchietto non aveva un soldo e
a fargli un bel funerale pensarono le prostitute sue amiche. Ed ecco
che il set si trasforma: si torna indietro nel tempo, i caruggi si
popolano degli abitanti di allora e la bara del limonaio, che non
riusciva a passare dalle strette scale del vecchio palazzo, viene calata
dal terzo piano, fra le grida di incoraggiamento della gente del
quartiere.
«Ci fan tornare indietro Gino, ma tu lo sai com’ è il
cinema?». Camminano da porta di Vacca in via del Campo, don Andrea Gallo
e Gino Paoli, “ambasciatori” di Genova, in un’altra scena. «Janua
significa porta, se Genova avesse mantenuto la sua vocazione sarebbe
ancora una grande città” dice Paoli». E, ancora: «I genovesi una volta
erano saggi, lavavano la città con l’acqua di mare per non sprecarne.
Oggi è una città che pensa all’ apparenza. La bellezza di una città è la
sua gente». «Nei vicoli si trovava di tutto, c’erano gli artigiani, i
commercianti, come si vede dai nomi delle vie: salita Pollaiuoli, vico
Indoratori, via Orefici» ricorda Don Gallo. «Era ed è il centro storico
più grande d’Europa».
Nei quartieri “dove il sole del buon Dio non
dà suoi raggi” e dove un tempo c’erano le “graziose” cantate da De
Andrè, oggi gli immigrati fanno la fila davanti alle decine di “phone
center” e gestiscono le numerose botteghe di “kebab” e cianfrusaglie. Ma
questa, in fondo, è la vocazione storica di Genova, città di marinai e
di forestieri che vi approdavano da tutto il mondo. A scomparire,
invece, sono stati i cantautori con la loro celebre scuola. Ammesso che
sia mai esistita, visto che di genovesi autentici, in quel gruppo, ce
n’erano pochi: Paoli è nato a Monfalcone, Tenco a Cassine, in Piemonte,
Lauzi addirittura all’Asmara, Eritrea. E se pure a Genova tutti loro
hanno vissuto, paradossalmente la fortuna è arrivata quando se ne sono
andati, chiamati a Milano da Reverberi che, sostiene Paoli, «non aveva
alcuna fiducia nelle nostre capacità artistiche, aveva nostalgia di
Genova e bisogno di compagnia».
Sarà, ma quella truppa di amici
che si incontrava in locali come la “Pensione del Corso” e il ristorante
“Dal Genovese” (quest’ultimo, chiuso da anni, è stato fedelmente
ricostruito per ambientarvi una delle scene clou del film) ha portato
con sé un pezzo di Genova che ha permeato la loro musica. E ora a Genova
tornano, sia pure virtualmente.
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