venerdì 20 maggio 2016

10 canzoni da spiaggia





(foto da internet)
Cari chiodini vicini e lontani, siamo giunti alla fine dell'anno scolastico. 
Prima di andare al mare, prima di intraprendere la cosiddetta Operazione Bikini, prima di buttarci sui succhi naturali (ma al mare, ricordate, ci vuole la birretta!), prima ancora di abbandonare i cibi fritti, il cioccolato, i dolci e di non cadere nella trappola delle diete ad effetto yo–yo, vi abbiamo preparato una playlist di canzoni da spiaggia che, ne siamo sicuri, vi accompagneranno in riva al mare.
Ecco a voi la nostra selezione:
  1.  Edoardo Vianello lanciò Pinne fucile ed occhiali (vedi>>) (1962), arrangiata dal Maestro Morricone, spensierata e divertente, e con tanto di sonorità dell'acqua del mare.
  2. Sempre Vianello, nel 1963, ebbe un notevole successo con Abbronzatissima (vedi>>), arrangiata ancora da Ennio Morricone e con un inizio particolarissimo (ricordate quella a... -quasi sospesa- abbronzatissima?).
  3.  Nello stesso anno, Gino Paoli  interpretò una delle più famose canzoni italiane: la raffinata Sapore di sale (vedi>>).
  4. Sempre nel 1963, Piero Focaccia, col brano Stessa spiagga stesso mare (inciso anche da Mina) (vedi>>) conobbe uno straordinario successo parlando di mare, ombrelloni, spiagge e pattini...
  5.  Nel 1964, Los Marcellos Ferial -il nome era tutto un programma- interpretarono un vero e proprio inno all'abbronzatura: Sei diventata nera (vedi>>).
  6.  Nel 1965, il raffinato Bruno Martino lanciò E la chiamano estate (vedi>>) -scritta assieme con Franco Califano- intimista e con richiami musicali molto originali.
  7. Nel 1968, in piena contestazione studentesca, Riccardo Del Turco ebbe un grandissimo successo con la canzone Luglio (vedi>>) di cui si fecero anche delle versioni in francese e in inglese.
  8. Gabriella Ferri, nel 1973, in dialetto romanesco, lanciò la famosa Tutti ar mare (vedi>>), richiamo alla tradizione popolare romana di recarsi nelle spiagge vicine alla capitale, in un'interpretazione trasgressiva e particolarissima. 
  9.  Gli anni '80 in Italia furono segnati dall'influenza  dei ritmi latini. Un duo di italiani, i Righeira, ebbe un notevole successo con Vamos a la playa (vedi>>) tormentone estivo il cui titolo entrò, addirittura, nel linguaggio quotidiano. 
  10.  Nel 1982, Franco Battato scrisse per la voce originale di Giuni Russo Un'estate al mare (vedi>>), forse l'ultima vera canzone da spiaggia.


 (foto da internet)

Buone vacanze e buon ascolto! 
p.s. Il nostro blog va in ferie. Ci rivedremo on line, come sempre a settembre!
 
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mercoledì 18 maggio 2016

La gioia della strada


(foto da internet)

Il nostro chiodino Gianpiero Pelegi ha tradotto insieme a Dionís Martínez e Rafael Tomás il poeta Vicent Andrés Estellés, proncipale innovatore della poesia valenzana contemporanea, per la prima volta in italiano. E il lavoro filologico ha dato come frutto il libro La gioia della strada, un'antologia di 60 poesie scelte, della casa editrice Edizioni dell'Orso, a cura di Veronica Orazi, professoressa di Filologia Catalana dell'Università di Torino, con prologo del poeta Jaume Pérez Montaner. 



(foto da internet)

Il grande merito di questo arduo lavoro è stata la trasposizione in un'altra lingua del vissuto del poeta valenzano, così intimamente legato alla terra levantina.Estellés alla poesia ha sempre chiesto di dire la verità, una verità presente negli oggetti, nei corpi, negli odori, nei rumori che raffigurano una realtà quotidiana descritta con uno stile espressivo e una lingua ricca di molteplici registri. 


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(foto da internet)

Certamente, non è stato facile tradurre Estellés nella lingua di Dante, ma il risultato che ne deriva è una lettura in italiano piena di musica, accattivante e piacevole. 

Auguri a tutti per il lavoro da tutti i chiodini!



lunedì 16 maggio 2016

La Scozia italiana

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(foto da internet)

Gurro (Gür in piemontese) è un comune italiano di circa 260 abitanti della provincia del Verbano Cusio Ossola, in Piemonte.
Si trova nella splendida Valle Cannobina ed è situato a pochi chilometri dal Parco Nazionale della Val Grande e del Lago Maggiore.
Gurro è noto per una certa affinità culturale tra la popolazione locale e la Scozia! Il modo di vestire, gli usi e degli studi di glottologia sul dialetto locale testimonierebbero i legami esistenti (vedi>>).
Alcuni documenti risalenti al XVI secolo narrano che, dopo la battaglia di Pavia del 1525 tra il Re di Francia Francesco I e Carlo V, alcuni mercenari scozzesi, non essendo potuti rientrare in patria, abbiano trovato rifugio proprio nel villaggio di Gurro


(foto da internet)
Il motivo della loro scelta fu che i soldati ritrovarono su queste montagne condizioni di vita simili a quelle delle Highlands scozzesi. Infatti le caratteristiche geomorfologiche delle montagne e le distese di prati, adatti alla coltivazione e all'allevamento, ricordano ancora oggi quelle regioni nel nord della Scozia.
Le testimonianze a favore della tradizione scozzese sulla fondazione del paese sono numerose e tra queste vi è il bellissimo costume tipico delle donne, composto lavorando 14 metri di stoffa, in cui la sottoveste è in tessuto scozzese e di pregevole fattura. Oltretutto, le vie strette del paese e le antiche case sono state costruite con uno stile che non si riscontra in nessun altro villaggio della valle. E ancora, la struttura portante dei muri che compongono il perimetro del borgo è in legno, formata da un rettangolo intersecato da una croce di Sant'Andrea!




(foto da internet)


Per tutto ciò, nel 1973, il Tenente Colonnello Gayre of Gayre and Nigg, Barone di Lochoreshyre, in base all’evidenza dei fatti, giudicò ragionevole la tradizione locale secondo la quale Gurro fu fondata da un manipolo di guardie scozzesi al servizio del Re di Francia, fermatisi in questi luoghi dopo la battaglia di Pavia.
In base a questa convinzione, il Barone affiliò Gurro come Setta del Clan Gayre, attribuendo al sindaco del paese l’autorità di dirimere le questioni del Clan e di decidere l’affiliazione di eventuali nuovi residenti. Il nome del Clan col quale il Barone affiliò il comune di Gurro fu quello di Clan Perduto.
La fastosa cerimonia di affiliazione ebbe luogo più di quaranta anni fa e richiamò a Gurro numerose autorità ed altrettanti giornalisti e televisioni, tra i quali la stessa BBC che produsse un documentario sull’evento.
Buon viaggio e Slàn leibh!



venerdì 13 maggio 2016

Boia (e altro)

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(foto da internet)
Il termine boia s. m., proviene forse dal provenzale boia (ceppi, catene), e, a sua volta, dal latino boia -ae, strumento di supplizio.
In italiano designa chi ha l’ufficio di eseguire le sentenze di morte, ed è il nome popolare del carnefice.
Per estensione, significa ribaldo, mascalzone, furfante
Il termine è presente in alcune esclamazioni: ad esempio, boia d’un mondo ladro! (per esprimere forte irritazione o disappunto); si usa anche in funzione di aggettivo: ad esempio, padrone boia (con forte valore peggiorativo) e con valore superlativo: ad esempio, un tempo boia (pessimo).



(foto da internet)
Al boia, e contro la pena di morte, il compianto García Berlanga dedicò il film El verdugo (in italiano La ballata del boia) in cui l'ingenuo José Luis, un dipendente di un'impresa di onoranze funebri, sposa Carmen, la figlia del boia del paese. La parentela e la necessità di garantire a moglie e figlio la sicurezza economica lo costringono a succedere al suocero nell'attività. Per anni non ci sono casi di condanne a morte, finché José Luis non viene chiamato per un'esecuzione capitale a Palma di Maiorca, ed è costretto a portare a termine la propria opera davanti allo sguardo piuttosto indifferente dei familiari. 
Alla sceneggiatura collaborò Ennio Flaiano e l’indimenticabile Nino Manfredi interpretò il ruolo di José Luis.



 (foto da internet)

Il termine boia viene usato nella città di Livorno in un’interiezione particolarissima: boia dé!
L’interiezione è una categoria di parole invariabili con il valore di frase, usata per esprimere emozioni o stati soggettivi del parlante. Priva di legami sintattici con le altre parti del discorso, corrisponde, da un punto di vista pragmatico, a un intero atto linguistico:
Ad esempio in:
A: Paolo non è venuto al cinema.
B. Toh!
il significato di toh! coincide con quello della frase “questo fatto mi sorprende”.
Torniamo a Livorno. I livornesi usano il boia dé! in qualsiasi contesto. L'interiezione può introdurre un discorso, rafforzarlo, concluderlo; può essere una risposta affermativa o può rafforzare una congiunzione. Insomma il boia dé! sta come il cacio sui maccheroni nella favella dei livornesi. 



 (foto da internet)

Ogni occasione è buona per pronunciarla. Il , vuole sempre la e chiusa, ed è, davvero, la quintessenza della livornesità (vedi>>).
Alcuni studiosi hanno fatto risalire il boia dé! livornese a decco, e cioè alla forma ed ecco. Altri, invece, sostengono che non è altro che la contrazione di madiè ovvero mio Dio, una delle formule di giuramento entrate poi nel parlato. Come abbiamo segnalato va accompagnato da boia e forma un'interiezione che contraddistingue un intero popolo. 
Insomma, è un po' il nostro xe, valenzano, usato in eccesso. 
Fine. Boia dé!


mercoledì 11 maggio 2016

Mamma Erasmus


(foto da internet)

Si chiama Sofia Corradi, ha 82 anni e lunedì scorso, nel monastero di Yuste a Caceres, in Estremadura, ha ricevuto il prestigioso premio Carlo V, riconoscimento assegnato negli anni a personaggi che hanno contribuito alla costruzione europea, da Helmut Kohl a José Barroso, Jacques Delors, Simone Veil. Sofia Corradi ha inventato l’Europa della conoscenza. Il premio per lei sta già tutto in quel soprannome che milioni di ragazzi e professori le han dato: «Mamma Erasmus». È a lei, infatti, alla sua tenacia, alla sua lungimiranza, che si deve la nascita del programma di mobilità tra atenei universitari denominato con l’acronimo di «European Action for the Mobility of University Students», che poi nel tempo è stato facile associare alla figura del filosofo olandese che tra Quattrocento e Cinquecento percorse il Vecchio Continente per conoscere e comprendere le diverse culture che lo popolavano. È questa donna, che fino al 2004 ha insegnato Educazione degli adulti alla facoltà di Scienze della Formazione dell’università di Roma Tre, che ha reso possibile per 4 milioni di studenti, di quattromila atenei, un’esperienza all’estero durante gli anni di studio. Insieme al riconoscimento solenne, Sofia Corradi ha ricevuto anche un premio in denaro di 90mila euro: la metà rimarranno a lei, il resto verrà distribuito tra 12 dottorandi, sotto forma di borse di dottorato da assegnarsi a seguito di concorso europeo.

(foto da internet)

Dopo aver compiuto studi e ricerche negli Stati Uniti, all’Aja, alla London School of Economics, all’Unesco, Sofia Corradi si è scontrata contro l’ottusità di una burocrazia che le negava il riconoscimento degli studi (seppur prestigiosissimi) svolti all’estero. Un rifiuto che ha innescato una battaglia durata vent’anni, per convincere i rettori delle università europee ad inserire programmi di scambio universitario nei loro piani di studi. «L’architettura di base mi era chiara fin dall’inizio - dice Corradi -: con il consenso della facoltà di provenienza e in base ad accordi tra le due università coinvolte, lo studente poteva andare a studiare all’estero. Al suo ritorno in Italia, le università si impegnavano a riconoscere gli studi fatti all’estero».


(foto da internet)

«Un modo per dare a chiunque lo desiderasse la possibilità di fare quello che solo una famiglia ricca poteva permettersi», dice Corradi. «Un programma rivoluzionario, che quando lo illustravo suscitava due tipi di reazioni: da una parte a chi mi diceva che era un’idea balzana, di lasciar perdere, che le nostre università erano sufficientemente buone e non c’era bisogno che i nostri giovani andassero all’estero per correre dietro alle ragazze di altri Paesi. Dall’altra chi, dopo avermi ascoltato solo per venti secondi, subito capiva, si entusiasmava». Un’idea che solo nel 1987 arrivò a realizzarsi. Dopo un’interminabile sequela di riunioni, discussioni, incontri, barriere burocratiche. L’approvazione definitiva, con la ratifica del Consiglio dei ministri nel giugno 1987. In quello stesso anno, 3000 studenti hanno potuto migliorare la loro formazione in un’altra università europea.


(foto da internet)

Oggi Erasmus - che per il settennio 2014-2020 ha ricevuto in dote un finanziamento di 125 miliardi di euro, e che dal 2014 è stato potenziato come «Erasmus Plus» - è definito, nei documenti ufficiali della Commissione Europea, «il programma di gran lunga di maggior successo tra tutti quelli di formazione ed educativi dell’Unione». E ora c’è chi vorrebbe renderlo obbligatorio per tutti: «Mi inseguono per chiedermi di promuovere delle campagne in questo senso. Mentre quando avevo trent’anni dovevo inseguire io la gente nei corridoi per distribuire ciclostili e pregarli di ascoltare le mie idee». Ma «Mamma Erasmus» è contraria all’estensione universale del programma. «È vero, dovrebbe avere una diffusione maggiore (oggi parte soli il 5% degli studenti italiani) - dice -. Ma è bene che venga scelto solo da chi è davvero motivato. È importante l’autoselezione. Quando poi tornano, i ragazzi che hanno vissuto l’esperienza, sono persone diverse: hanno stima di sé, della propria cultura nazionale, sanno come si dialoga con chi è di cultura diversa, non giudicano, hanno una marcia in più». «Gli Erasmiani - sostiene Corradi - imparano a galleggiare in mezzo ai marosi della vita, a cavarsela da soli nelle difficoltà».


(foto da internet)

Unico limite, l’importo della borsa di studio, che non copre tutte le spese. «Ma la filosofia del programma - spiega Corradi - è sempre stata quella di consentire agli studenti di coprire le spese in più che avrebbero avuto studiando all’estero. Certo, è importante che chi ne ha la possibilità - associazioni, aziende, enti locali - aggiungano alle borse Erasmus somme che garantiscano autonomia agli studenti. Quando si entra nel sistema, poi, si gode di altri vantaggi: per esempio si abita e si mangia a prezzi convenzionati».

lunedì 9 maggio 2016

La piadina

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(foto da internet)
La celeberrima piadina è composta da una sfoglia di farina di grano, strutto od olio di oliva, bicarbonato o lievito, sale e acqua, che viene tradizionalmente cotta su un piatto di terracotta, detto teglia o su piastre di metallo, oppure su lastre di pietra refrattaria chiamate testo.
Diverse sono le ipotesi sulle sue origini e sulla sua forma e impasto originale. Fin dagli antichi Romani ci sono tracce di questa forma di pane. Gli antenati dell'odierna piadina possono essere individuati anche in una focaccia a base di farina di ghianda ed altre farine povere in uso in tempi antichi.
Il termine piadina proviene da piada (detta localmente anche piê, pièda, pìda, pjida), da cui il diminutivo piadina; essa deriva da un termine italiano settentrionale piàdena (vaso), e questa dal latino medievale plàdena o plàtena (piatto lungo, teglia). La parola piada è attestata fin dal XVI secolo.
Si mangia per accompagnare varie pietanze nel corso del pasto.





(foto da internet)
Può essere piegata a metà e farcita in vario modo: con la salsiccia, con affettati vari, con la porchetta, con la rucola e col famoso squacquerone, con erbe o verdure gratinate, con confetture o con la Nutella (vedi>>).
La si può preparare anche come Crescione: una maniera tipica in cui la sfoglia viene farcita, ripiegata e chiusa prima della cottura. Deve il suo nome all'antica farcitura con erba crescione (Lepidium sativum), difficile da trovare attualmente, ma che un tempo abbondava lungo i fossi. La farcitura si insaporiva anche con aglio, cipolla o scalogno.
Oggi le farciture più comuni sono alle erbe (spinaci e/o bietole), con o senza ricotta e formaggio grattugiato, con una base di mozzarella e pomodoro abbinata con salumi, e con zucca e patate.
La piadina va mangiata fresca, realizzata sul momento, in appositi chioschi, anche detti piadinerie, diffusi in tutta la Romagna.
(foto da internet)
Questo prodotto, pur essendo tipico della Romagna, è ormai conosciuto in tutta Italia e all'estero.
Ad esempio, la famiglia Maioli - vera e propria pietra miliare della piadina- è arrivata negli store Eataly di Milano, Roma, Mosca, Istanbul, New York, Dubai. La loro storia, e soprattutto i segreti delle loro piadine sono svelati nel libro  La Piadina, segreti e ricette per preparare la vera piadina romagnola (di Mirko e Alessandro Maioli, edito da Mondadori Electa). 
La piadina ha stregato anche gli chef pluristellati, i quali hanno recentemente messo in ballo la loro creatività per offrire delle ricette d’autore che rinnovano, con personalità e buon gusto, la classica piadina.
Lo chef Fulvio Pierangelini propone una piadina col noto formaggio squacquerone, menta, zucchine e gamberi.
 Massimo Bottura ha inventato la piadina al pesto modenese, lardo di mora romagnola e Parmigiano Reggiano; mentre la piada firmata da Heinz Beck è con crema di ricotta, fichi e vino rosso.
Sbizzarritevi! Provare per credere!
Buon appetito!

venerdì 6 maggio 2016

Il festival degli aquiloni

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(foto da internet)

Probabilmente il nome di Pinarella, una frazione del comune di Cervia (Ravenna), sfuggirà ai più.
Il paese si trova a 3 km da Cesenatico e a 3 km dal centro di Cervia, in Romagna. Oltre al mare, il paese ha una bella pineta di 25 ettari che si sviluppa lungo la spiaggia e la divide dall'abitato.
Il suo nome sta perpiccola pineta”. Pinarella presenta un'offerta alberghiera importante, ha tre campeggi aperti in estate, alcune colonie che hanno mantenuto la vocazione di casa vacanza per gruppi di bambini/ragazzi, centri sportivi ricreativi e case per ferie destinate ad anziani o disabili. La principale fonte economica del paese è rappresentata dal turismo estivo non solo balneare, ma anche ecologico, sportivo ed enogastronomico.

 (foto da internet)

Pinarella è famosa per l'organizzazione del Festival Internazionale dell'aquilone. Da fine aprile, fino a inizio maggio, il paese ospita un festival di aquilonismo sulla spiaggia per circa dieci giorni (vedi>>).
Gli appassionati di aquiloni possono ammirare il cosiddetto volo libero, le installazioni eoliche, e possono cimentarsi con la costruzione di un aquilone nei laboratori in riva al mare. Oltre 200 artisti del vento, rappresentanti di più di trenta paesi di tutto il mondo, hanno partecipato all'edizione 2016, che ha avuto come ospite d’onore la Francia. Sulla spiaggia si è tenuta anche la mostra del celebre fotografo Hans Silvester per ricordare l’aquilonista Philippe Cottenceau.




(foto da internet)
Ogni mattina si può assistere alle prove di volo acrobatico, alle emozionanti dimostrazioni di combattimenti secondo le tradizioni dei vari paesi, realizzate dai maestri del volo acrobatico di precisione. Da non perdere sono anche i suggestivi voli in notturna in un’atmosfera unica.
Insomma, una specie di Malvarrosa nostrana ma più cool (?).

 



mercoledì 4 maggio 2016

Gradite un caffè arcobaleno?


Vi piacerebbe un buongiorno color arcobaleno con un Rainbow Coffee, realizzato con l’arte del latte multicolore (latte art)? E’ questa l’ultima trovata diventata virale sui social. Servito in tazza al locale Sambalatte di Las Vegas, l’idea di questo caffè nasce dall’estro del barista Mason Pressley Salisbury. L’americano ha condiviso sull’account Instagram @ibrewcoffee le sue creazioni con disegni floreali, nate unendo alla schiuma del latte dei coloranti alimentari. Tra like e copie di appassionati, professionisti e marchi noti come Starbucks, la rete ha fagocitato il nuovo piccolo fenomeno. Il cibo, religione contemporanea, non è infatti immune dalle mode. L’ultimo colpito è appunto il caffè: in Italia ne consumiamo una media annua di 5,56 kg a testa, soprattutto di amato espresso, un rito a casa fatto con la moka o in capsule e cialde e in tazzina al bar. Dopo la tendenza social del #rainbowfood (dalle ciambelle alla pizza) è tempo quindi di #rainbowcoffee, valido anche per il cappuccino, che piace tanto all’estero. E a chi si preoccupa degli effetti nocivi del colorante, il barista ha detto che vuole creare una versione “bio”. E lo sapete che a Milano, in via Tadino 6, c’è un localino accogliente che si chiama proprio Rainbow Café?  Tornando alla bevanda che ci fa tenere il ritmo e che ci aiuta a svegliarci, capita anche che “l'odore del caffè nella cucina” che invade la casa ci faccia venire voglia di canticchiare, magari non così bene come faceva nel capolavoro musicale del 1979 “Io Canto” Riccardo Cocciante, che sì cantava la vita . Ecco quindi una carrellata di immagini a tema caffè, nelle versioni più curiose, che provengono in primis dagli Usa e dal social del momento, Instagram. Dal Rainbow Coffee con Latte Art, scoprite come si fa, al caffè preparato a freddo, il cold brew coffee, con l’aggiunta di aromi, spezie o latte. Quale vi piace di più? (a cura di Maria Teresa Melodia)
(foto da www.corriere.it)

Vi piacerebbe un buongiorno color arcobaleno con un Rainbow Coffee, realizzato con l’arte del latte multicolore, latte art. È questa l’ultima trovata diventata virale sui social. Servito in tazza al locale Sambalatte di Las Vegas, l’idea di questo caffè nasce dall’estro del barista Mason Pressley Salisbury. L’americano ha condiviso sull’account Instagram @ibrewcoffee le sue creazioni con disegni floreali, nate unendo alla schiuma del latte dei coloranti alimentari. Tra like e copie di appassionati, professionisti e marchi noti come Starbucks, la rete ha fagocitato il nuovo piccolo fenomeno. 


Questo è il risultato del lavoro di un giorno. Mason Pressley Salisbury ha fin da subito filmato le sue sperimentazioni in tazza, postando oltre alle foto, anche dei video direttamente sul suo account Instagram.
(foto da www.corriere.it)

Il cibo, religione contemporanea, non è infatti immune dalle mode. L’ultimo colpito è appunto il caffè: in Italia se ne consuma una media annua di 5,56 kg a testa, soprattutto di amato espresso, un rito a casa fatto con la moka o in capsule e cialde e in tazzina al bar. Dopo la tendenza social del #rainbowfood (dalle ciambelle alla pizza) è tempo quindi di #rainbowcoffee, valido anche per il cappuccino, che piace tanto all’estero. E a chi si preoccupa degli effetti nocivi del colorante, il barista ha detto che vuole creare una versione “bio”. 

L'idea sembra funzionare e le sperimentazioni del barista  (qui dedicate alla fidanzata) aumentano, così come i like sul social alle immagini di invitanti caffè e cappuccini con latte art multicolore decorati con foglie

(foto da www.corriere.it)

Insomma, del Rainbow Coffee con Latte Art, del caffè preparato a freddo, il cold brew coffee, con l’aggiunta di aromi, spezie o latte, che cosa direbbe adesso il grande Eduardo o scriverebbe Pino Daniele a proposito di tazzulella 'e cafè?



lunedì 2 maggio 2016

Un Caravaggio diverso

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 (foto da internet)

Michelangelo Merisi, detto Caravaggio, nacque a Milano nel 1571. Nella città lombarda, si formò presso la bottega del pittore Simone Peterzano.
A vent'anni si trasferì a Roma, e cominciò a inventare un suo particolare repertorio dipingendo giovani presi dalla strada, messi in posa, accompagnati da cesti di frutta, calici e oggetti di vetro.
Caravaggio rivelò la sua predilezione per soggetti popolareschi così come sono in realtà: la foglia secca, la mela bacata, senza cercare di abbellire la natura, ma rappresentandola così com'è.
La luce fu l'elemento caratterizzante della sua intera opera. Condusse una vita sregolata e fu costretto a fuggire da Roma dopo aver ucciso un uomo durante una rissa.
Trovò rifugio a Siracusa e posteriormente a Napoli dove venne ferito gravemente.
Nel 1610, sulla spiaggia di Port'Ercole, in Toscana, dove era in attesa di rientrare a Roma per ricevere la grazia, venne arrestato e incarcerato. Due giorni dopo morì, a soli 38 anni.




(foto da internet)
In questi giorni, nell’ultima puntata di Italia’s Got Talent, un programma in onda tutti i mercoledì alle 21.15 su TV8, in cui dei giudici seduti ad un bancone valutano dei concorrenti che si esibiscono sul palco mostrando loro il proprio talento in una qualsiasi disciplina, siano essi cantanti, ballerini, illusionisti, acrobati, addestratori di animali, strumentisti, ventriloqui, imitatori e altro ancora, un concorrente ha voluto rendere omaggio ai capolavori del Caravaggio, riproducendo la Crocifissione di San Pietro, la Vocazione di San Matteo e la Morte della Vergine con i corpi immobili dei suoi compaesani, gli abitanti di Avigliano in Basilicata. Impressionati dalla particolarità dell’esibizione, i giudici hanno emesso parere positivo (vedi>>).





(foto da internet)
La Crocifissione di san Pietro è un olio su tela (230 x 175 cm). L'opera fu realizzata tra il 1600 ed il 1601, ed è nella Cappella Cerasi di Santa Maria del Popolo a Roma. Nella tela, di carattere volutamente antieroico e antiaulico, la luce investe la croce e il santo, entrambi simbolo della fondazione e della costruzione della Chiesa, attraverso il martirio del suo fondadore. La luce investe i carnefici, qui raffigurati non come aguzzini che agiscono in maniera brutalmente gratuita, ma come uomini semplici, costretti ad un lavoro faticoso.



(foto da internet)
 
Nella Vocazione di San Matteo, Caravaggio raffigura il momento in cui Gesù, accompagnato da San Pietro, invita Matteo a lasciare il suo lavoro di agente delle tasse e a seguirlo per diventare uno dei suoi Apostoli.
Matteo è seduto al lungo tavolo di una stanza spoglia. Il tavolo ha la funzione di banco dei debiti, la parete scalcinata è interrotta da una finestra con i vetri impolverati, che non rischiara l’interno.
E’ invece un raggio di luce che proviene da destra, tagliando in diagonale la scena, che illumina la stanza.
La luce assume un valore simbolico poiché è la grazia divina che irrompe nella vita quotidiana, portando la salvezza.
A destra, Caravaggio, dipinge Gesù in parte coperto da Pietro.
San Matteo risponde alla chiamata indicando se stesso.





(foto da internet)
Il dipinto la Morte della Vergine, fu realizzato dal Caravaggio tra il 1605 ed il 1606, e venne rifiutato dai religiosi che lo avevano commissionato, i Carmelitati di Santa Maria della Scala a Roma, in quanto considerato indecoroso e sconveniente. Il quadro scandalizzò in quanto ritraeva la Madonna gonfia e con le gambe scoperte. 
Il dipinto, dopo essere stato rifiutato dai committenti, fu messo in vendita e venne acquistato, dal duca di Mantova.
Tutti i personaggi del dipinto sono rappresentati nella parte bassa della tela, mentre in alto è dipinto unicamente un ampio drappo rosso scarlatto, molto chiaroscurato, che contribuisce a conferire tragicità alla scena.
Un piccolo gruppo di personaggi è ritratto nell’atto di vegliare il corpo della Vergine, steso su un catafalco. Maria, con indosso un abito rosso, ha una posa naturale, con una mano sul grembo e con il braccio sinistro steso su un cuscino. Del suo corpo, gonfio e livido, s’intravedono anche i piedi nudi.
Caravaggio volle dipingere il corpo di Maria, come una vera donna, da poco deceduta. La scena ritrae l'umano dolore, non celato ed immediatamente comprensibile anche agli spettatori più umili.
Nella Morte della Vergine la luce, che scende obliquamente dall’alto, si posa dapprima sulle teste calve degli apostoli piangenti, per poi distendersi sulla figura di Maria e sulla Maddalena china davanti a lei.
Ad eccezione del drappo scarlatto, l’unico oggetto rappresentato nella composizione, significativamente povera e spoglia, è un catino di rame collocato ai piedi degli apostoli e contenente la soluzione d’aceto necessaria al lavaggio del cadavere.
Una maniera diversa, e originale, per conoscere il grande pittore milanese.