venerdì 30 gennaio 2015

A' genuvese (a Paolo G.)



(foto da internet)

Il commissario Luigi Alfredo Ricciardi, nato dalla penna di Maurizio De Giovanni,  è il protagonista di alcuni romanzi gialli ambientati a Napoli negli anni '30.
Ricciardi è nato nel 1900 a Fortino, in provincia di Salerno, in un'antica famiglia nobiliare. Dopo la laurea in giurisprudenza è entrato a far parte della regia polizia e si è trasferito a Napoli, con l'anziana balia Rosa, dopo aver perso tutta la sua famiglia. 
Ricchissimo, integerrimo e dal grande intuito, non ha nessun interesse alla carriera e per questo è ben visto dai suoi superiori che spesso si prendono il merito dei suoi successi investigativi e che mal sopportano i suoi metodi privi di riguardo verso le classi borghesi e nobiliari più influenti della città.  
Ricciardi ha un carattere triste per colpa del Fatto: una peculiare caratteristica che gli permette di percepire l'ultima frase e gli ultimi istanti di vita delle vittime di incidenti ed omicidi.




(Maurizio De Giovanni. Foto da internet)

Il commissario Ricciardi è affiancato nelle sue indagini dal brigadiere Maione e dal dottor Modo, medico forense dell'Ospedale dei Pellegrini.
Nei testi di De Giovanni emerge la Napoli di un tempo, con i suoi profumi ed odori ancestrali, ricca di atmosfere particolarissime.
Ne è testimonianza una ricetta che vorremmo proporvi: la genovese (a' genuvese in dialetto): una salsa ottenuta dalla cottura lentissima di cipolle e carne.
Nel romanzo Il posto di ognuno,  De Giovanni narra il pranzo organizzato da donna Lucia, la moglie del brigadiere Maione, per suggellare il profondo amore che la lega al marito. Scrive De Giovanni
Maione affrontò lentamente l'ultima parte della salita che lo riportava a casa per il pranzo. [...] il litigio della sera prima era la sicura premessa di un gelido silenzio della moglie, che lo avrebbe privato di quelle quattro chiacchiere che amava tanto per distogliersi dal lavoro [...] Le cose però cambiarono improvvisamente quando, ancora a cinquanta metri dal suo portone, distinse l'odore della genovese di Lucia. Non poteva sbagliarsi: la salsa di cipolle e carne cucinata dalla moglie, e solo quella, lo avrebbe risvegliato da uno stato di coma profondo ed era famosa in tutto il quartiere. Prima che diventasse un terreno minato, Lucia lo prendeva in giro dicendo che l'aveva sposata per la genovese; e lui, ridendo, le rispondeva che probabilmente aveva ragione [...] Aperta la porta, l'odore celestiale lo investì con violenza; gli sembrò di fiutare l'aroma dei broccoli fritti e delle patate al forno, e forse perfino di un babà al rum. Non poteva crederci: un vero e proprio pranzo di Natale in pieno Agosto. Cosa stava succedendo? Facendo caso al fatto che nessuno dei bambini gli veniva incontro come d'abitudine, entrò in cucina e rimase a bocca aperta: la tavola traboccava di cibo cucinato in tutti i modi. I coperti erano solo due ed erano state usate la tovaglia e le stoviglie che vedevano la luce soltanto nelle grandi occasioni. Lucia lo guardava bellicosa, in piedi vicino all'acquaio, asciugandosi le mani con uno straccio. Lui chiese: "E i ragazzi?". "Sono giù da mia sorella. Hanno mangiato là e tornano direttamente stasera". Il brigadiere indicò le pietanze disposte sulla tavola. "Tutta questa roba ... chi ce l'ha messa qui?". Lucia rispose con tono duro, ma negli occhi scintillava una risata. Si stava divertendo. "Ma secondo te chi l'ha messa? E secondo te, a chi mai farei mettere piede nella mia cucina?". Parlando si era avvicinata a Maione e gli aveva dato un finto pugno sul torace, e una altro, e una altro ancora come sottolineando quello che diceva. "E secondo te, ci sta una femmina a Napoli che cucina meglio di me? E secondo te ci sta un posto a Napoli dove stai meglio che a casa tua? E secondo te...". Lui le prese il polso fermando i colpi e le mise il braccio intorno alle spalle attirandola a sé [...] E risero e piansero tutti e due, finché Lucia disse: "mettiti a tavola, che se no lo buttiamo, tutto questo ben di Dio"; e Raffaele rispose: "per buttare la tua genovese devi passare sul mio cadavere". E sedettero e mangiarono per un'ora, e poi fecero l'amore e poi mangiarono il resto. Piangendo e ridendo.



(foto da internet)

Le ipotesi sul nome della ricetta, legano il piatto ad alcune osterie nei pressi del porto di Napoli nel periodo aragonese, e probabilmente gestite da cuochi provenienti da Genova o ai marinai genovesi della nave Superba che sbarcarono a Napoli nel XVIII secolo portando con sé le loro abitudini alimentari. 
Per chi volesse cimentarsi con questo piatto, ecco alcune raccomandazioni: a) la carne -comprate il girello di vitello- deve cuocere in un tegame di coccio; b) con questa salsa si condiscono gli ziti spezzati a mano oppure i mezzani (ma si può usare una pasta corta) c) la carne tagliata a fette, e condita col resto del sugo, è il secondo piatto da gustare dopo la pasta; d) si sconsiglia l'uso della cipolla bianca.
Buon appetito (e buona lettura)!

mercoledì 28 gennaio 2015

Caramelle contro la tosse




(foto da www.giallozafferano.it)

Quando si ha la tosse o il mal di gola, la caramella serve per dare un attimo di sollievo dai fastidiosi malanni. Le caramelle sono pillole di benessere che aiutano il corpo a lenire i piccoli tormenti dettati dal mal di gola e dall’influenza, tipici malanni invernali di questi giorni. Normalmente si comprano in farmacia, vi ricordate le Ricola?




Con alcuni semplici ingredienti si può provare a prepararle in casa a base di sciroppo di menta, di decotto all'anice e di altri ingredienti naturali utili come lo zenzero. 
Come? Vi bastano creatività, un forno dal modello comune e un po’ di voglia di coccole. 



Buon divertimento!!!

lunedì 26 gennaio 2015

Viva la Grecia (anche quella di Calabria)!


(foto da internet)


To gadaro ce lo lico

Mia mera, asce purrì, ena gadàro evoscevvje charapimèno,
chorto chlorò sce ena mmali mesa sta vunà.
Ecì condà iche era rrìaci pu trèchonda èsteddhe
mia mùsica glicìa me to lìgo nerò frisco ce catharò.

L'asino e il lupo

In un prato d'erba tenera
su un piano tra due montagne.
Nelle vicinanze scorreva un ruscello,
producendo un allegro mormorio 
con la sua acqua fresca e limpida

Cari chiodini (vicini e lontani) il testo che vi proponiamo, con la versione in italiano, appartiene alla tradizione dei greci di Calabria
Tra l'VIII ed il VII secolo a. C. la Calabria conobbe la colonizzazione greca. Secondo alcuni studi, mercanti e navigatori greci avevano già visitato in epoca micenea (attorno al XIV/XII sec. a.C.) le coste calabresi, istituendo anche fattorie commerciali. Ciononostante, si pensa che i contatti non siano stati duraturi e che l'avvento dell'ellenismo in Calabria sia collegato alle migrazioni doriche e joniche, provocate dall'eccesso di popolazione e dalle conseguenze delle guerre fra le città greche. 



(foto da internet)

La Calabria rappresentò una delle mete più ambite del movimento migratorio diretto verso quella parte dell'Italia meridionale alla quale fu attribuita la denominazione di Magna Grecia. Ai coloni di Calcide di Eubea si deve la fondazione di Reggio, verso la fine del sec. VIII a.C. 
Gli Achei del Peloponneso fondarono, nel 709/708 a. C. circa, l'una dopo l'altra, Sibari e Crotone.
Locri, fondata verso il 675 a. C., trae origine dai Locresi che le diedero il nome. Reggio, Sibari, Crotone e Locri costituirono i capisaldi ed i centri propulsori dell'ellenismo in Calabria. All'interno della meravigliosa eredità culturale che la cultura ellenica ha lasciato in questi luoghi, esiste un fatto straordinario che lega attraverso una linea storico-linguistica le prime colonie greche agli ellenofoni dell’Aspromonte di oggi: la lingua greca.



(foto da internet)


Tutt'oggi sono notevoli le tracce di questa presenza linguistica e culturale nella toponomastica, nell'onomastica, nel cosmo etno-antropologico, nei dialetti romanzi di tutta la regione ma in particolare nel suo segmento centro-meridionale. I rapporti fra ellenofoni d'occidente e la madrepatria linguistica rimasero attivi fino al XVII secolo. Dal 1600 in poi, la presenza degli ellenofoni in Calabria iniziò un silenzio durato per secoli: probabilmente per le condizioni di marginalità della regione che si accentuarono fortemente già dal XIII secolo sino a divenire drammatiche con l'unificazione nazionale. 
Nell'ottocento la Calabria ellenofona si limitava all'Aspromonte jonico meridionale, e, molto probabilmente, alla locride. Il territorio impervio dell'Aspromonte, con il suo isolamento, garantì la permanenza di un'economia chiusa, sino a alla seconda guerra mondiale. Questo microcosmo autosufficiente consentì la resistenza dell'idioma. Scopriranno la presenza dei greci di Calabria alcuni folcloristi del XIX secolo tra cui Giuseppe Pitrè.


(foto da internet)

Il XX secolo portò con sé la crisi del cosiddetto grecanico per le enormi trasformazioni sociali ed economiche per le scelte antimeridionaliste dello stato unitario, l'emigrazione e lo spopolamento delle aree interne fecero il resto. Con l'avvento del fascismo, la lingua ed il mondo greco-calabro vennero identificati come tratti di arretratezza e di sottosviluppo da dimenticare al più presto. Da questo periodo in poi, il grecanico venne identificato dalle stesse popolazioni locali con il sottosviluppo economico e l'emarginazione sociale. Nonostante la situazione che abbiamo descritto, la Calabria ellenofona sopravvive: essa si estende lungo la vallata dell’Amendolea, del torrente Siderone e del San Pasquale.




(foto da internet)

Dominati dal versante sud dell’Aspromonte e solcati da contrafforti e burroni, i paesi grecanici sono posti a quasi 15 chilometri dalla costa, generalmente tutti su monti una volta inaccessibili. Costretti in limitati confini naturali i greci di Calabria continuano a dar prova della loro identità e della loro cultura: Bova, Roghudi, Chorìo di Roghudi, Gallicianò, Roccaforte, e in più i nuovi insediamenti migratori di Condofuri, Bova Marina, San Giorgio Extra, Modena, Melito Porto Salvo, segnano i confini attuali della grecità odierna.



(foto da internet)

Vi proponiamo alcune canzoni della tradizione culturale grecanica: Ela ela mu kondà [Vieni, vienimi vicino], I zoi [La vita], Mi mu peddise pedimmo [Non mi sgridare figlio mio].

Buon divertimento!!

(A Giuseppe, Giacomo e ai greci tutti, con affetto)

venerdì 23 gennaio 2015

Mutande


(foto da internet)

Parliamo di mutande. Il nome proviene dal latino mutandae, derivato da mutarsi e  gerundivo di mutare (cambiare), sottintentendo, chiaramente, vestes.
Le mutande sono un capo di biancheria intima, maschile e femminile, che copre la parte del corpo che va dalla vita all’inguine o alle cosce.
Originariamente erano a forma di calzoni lunghi, e venivano indossate solo dagli uomini.  Divennero di uso generale nel XIX sec., perdendo un po' di stoffa e accorciandosi sempre più fino a raggiungere le ridotte misure attuali, e assumendo varie fogge e denominazioni (boxerculottestanga, e chi più ne ha, più ne metta).
Il termine in questione viene utilizzato anche  in locuzioni varie, ad esempio: essere senza camicia né mutandenon avere né camicia né mutande (essere molto povero); restarerimanere in mutande (rimanere senza soldi, o essere in estrema povertà).



(foto da internet)


Poi ci sono i diminutivi, ad esempio mutandine, che designano in particolar modo quelle da donna e da bambini, e gli accrescitivi, per sesempio i  mutandoni, e cioè le mutande ampie e lunghe fino alla caviglia usate un tempo dalle donne, e anche quelle aderenti, di lana o fustagno, indossate d’inverno dagli uomini.
Al capo d'abbigliamento Francesco Niente, cantante-filosofo, ha dedicato un curioso brano (ascolta>>). il cantante-filosofo Francesco Niente ha dedicato un famoso brano, intitolato, appunto Mutandine, un inno alla femminile mutabilità dei sentimenti... 



 (foto da internet)

Le mutande hanno avuto ampia eco alcuni giorni or sono, quando a Milano è stato lanciato un divertente flash mob (in mutande),  sulla scia del No pants subway ride che si tenne per la prima volta tempo fa a New York (siamo giunti alla 14esima edizione), e che fu poi esportato in numerose città di tutto il mondo.
I partecipanti all'evento si sono dati appuntamento in piazza Leonardo da Vinci, per raggiungere in metropolitana il Duomo. In piazza e con la Cattedrale sullo sfondo, è scattato l’immancabile selfie in slip (vedi>>)

mercoledì 21 gennaio 2015

Il cibo nell'arte

(foto da internet)

Una sorprendente mostra, strettamente legata al tema dell’Expo 2015 “Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita”, è la più importante esposizione dedicata al cibo nell’arte mai organizzata finora in Italia, dal 24 Gennaio al 14 Giugno 2015. Per la prima volta Palazzo Martinengo, a Brescia, ospiterà una prestigiosa selezione di oltre 100 dipinti di altissima qualità, che coprono un arco temporale di oltre quattro secoli, per offrire al pubblico l’occasione unica ed irripetibile di compiere un emozionante viaggio alla scoperta della rappresentazione del cibo e degli alimenti nelle varie epoche storiche.


Il cibo nell'arte dal Seicento a Warhol

Il percorso espositivo rivelerà quanto i pittori attivi tra XVII e XIX secolo amassero dipingere i cibi e i piatti tipici delle loro terre di origine e farà persino scoprire pietanze e alimenti oggi completamente scomparsi, di cui è difficile immaginare addirittura il sapore. 
L'Italia è narrata attraverso le opere d'arte che ne mostrano la tradizione gastronomica: dal Barocco al Rococò, dal Romanticismo alle avanguardie del XX secolo. La mostra sarà suddivisa in dieci sezioni tematiche: L'allegoria dei cinque sensi, Mercati, dispense e cucine, La frutta, La verdura, Pesci e crostacei, Selvaggina da pelo e da penna, carne salumi e formaggi, Dolci vino e liquori, tavole imbandite, Il cibo nell'arte del XX sec. 


Il cibo nell'arte dal Seicento a Warhol
(foto da internet)

Oltre a godere dell'esposizione, i visitatori avranno la possibilità di informarsi su alimenti e gusti delle varie epoche presenti nella mostra. Tra le attività collaterali, laboratori didattici per bambini e un concorso a premi rivolto agli studenti delle scuole di ogni ordine e grado, nel quale i ragazzi si cimenteranno in un lavoro artistico che abbia come tema centrale il cibo. 

lunedì 19 gennaio 2015

Giù le mani dal liceo classico!


(foto da internet)


Odi et amo.
Quare id faciam, fortasse requiris. 
Nescio, sed fieri sentio et excrucior

(Odio e amo. 
Forse ti chiederai, per quale motivo io lo faccia.)

Non lo so, ma sento che accade, e mi tormento)


Chi ha detto che Catullo è ormai dimenticato? Lucrezio noioso? Marziale volgare? Nient'affatto. Tutti vivi e attuali (e divertenti).
A ridar loro vita, anche fuori dalle aule, ci hanno pensato i licei classici italiani, alla ribalta in questi giorni a causa dell'organizzazione di una notte bianca fatta di letture, testi recitati, mostre fotografiche e proiezioni che gli autori classici, di sicuro, avrebbero gradito. 
Il liceo classico è stato al centro di forti polemiche in questi ultimi anni: considerato da alcuni una scuola morta, dove si insegnano ancora materie considerate poco moderne, come il greco, il latino e la letteratura classica, mentre il mondo va (?) in tutt’altra direzione, resta, però, a nostro avviso, un forte punto di riferimento dei valori dell’umanesimo, ed è senz'altro l’anima dell’Italia migliore. 
Il liceo classico prepara alle professioni del futuro (tutte, senza esclusioni), insegna a ragionare e a resistere, e grazie allo studio e del greco e del latino propone veri problemi da risolvere e non semplici esercizi da eseguire. Al liceo classico dobbiamo gran parte di quello che di buono ha ancora il nostro paese.




(foto da internet)

ll padre dell’idea delle notti bianche è Rocco Schembra, professore di latino e greco del liceo classico Gulli e Pennisi di Acireale, in Sicilia. Una scuola di provincia che però è una vera istituzione per il territorio: centotrenta anni di storia, quasi seicento studenti, prima nel ranking dei migliori istituti della provincia di Catania elaborato dalla Fondazione Agnelli, seconda in quello regionale. 
Questo indirizzo ha registrato un costante calo delle iscrizioni in tutto il territorio nazionale: nell’anno scolastico 2014-2015 lo hanno scelto solo il 6 % degli studenti, poco più di 30 mila ragazzi contro il 10,1 % del 2004! I dati statistici hanno spinto il liceo Gulli e Pennisi a lanciare l'iniziativa della notte biancaFacebook ha fatto il resto. Oltre 150 scuole, grazie al tam tam sul social network, hanno aderito al progetto.  
La rete liceo classico metterà a punto, a breve, un calendario di appuntamenti per promuovere in chiave moderna i principi della classicità in cui saranno coinvolti giovani e meno giovani e per potenziare il ruolo fondamentale di questo indirizzo.
Insomma, per dirla con Plutarco: I giovani non sono vasi da riempire, ma fiaccole da accendere.
Meditate, gente, meditate...
(Ad Ana, Mariló, Charo, Amparo e alla cara memoria di Junvi).





venerdì 16 gennaio 2015

Sant'Antonio dalla barba bianca, se non piove la neve non manca...






(foto da internet)

Il titolo del post  è tutto un programma! Si tratta di un detto, abbastanza diffuso nell'Italia centrale, che fa riferimento alla festività di Sant'Antonio Abate, e che si celebra nel cuore dell'inverno. Quindi, per l'epoca dell'anno, ci si aspetta la neve o la pioggia.
Sant'Antonio è invocato come patrono dei macellai e salumai, dei contadini e degli allevatori e come protettore degli animali domestici; è potente taumaturgo capace di guarire malattie terribili, come ad esempio il "fuoco di Sant'Antonio". 
Tutti coloro che hanno a che fare con la suddetta malattia vengono posti sotto la protezione di Sant'Antonio, in onore del racconto che vedeva il santo addirittura recarsi all'inferno per contendere al demonio le anime dei peccatori.



(foto da internet)

Il male degli ardenti, o fuoco di Sant'Antonio, causato dall'Herpes zoster, è una malattia provocata da una intossicazione alimentare che provocava negli intossicati febbri altissime, accompagnate da allucinazioni, deliri e bruciori insopportabili. Queste intossicazioni toccavano intere collettività e provocavano nelle stesse delle vere e proprie stragi.
Sant'Antonio è considerato anche il protettore degli animali domestici, tanto da essere solitamente raffigurato con accanto un maiale che reca al collo una campanella. Il 17 gennaio tradizionalmente la Chiesa benedice gli animali e le stalle ponendoli sotto la protezione del santo. La tradizione deriva dal fatto che l'ordine degli Antoniani aveva ottenuto il permesso di allevare maiali all'interno dei centri abitati, poiché il grasso di questi animali veniva usato per ungere gli ammalati colpiti appunto dal fuoco di Sant'Antonio. I maiali erano nutriti a spese della comunità e circolavano liberamente nel paese con al collo una campanella.
La più bella tradizione legata alla festa di Sant'Antonio è quella che si svolge a Collelongo, in provincia de L'Aquila, nella notte tra il 16 ed il 17 gennaio. La festa inizia la sera del 16 alle 18 con l'accensione dei due torcioni, torce in legno di quercia alte oltre 5 metri, che arderanno tutta la notte. Contemporaneamente, nelle case del paese, allestite per l'occasione con arance ed icone del santo, viene posta sul fuoco la cottora, un enorme pentola nella quale viene messo a bollire parte del mais raccolto durante l'anno. 




(foto da internet)

La sera chi ha la fortuna di essere invitato da qualche famiglia del paese potrà gustare intorno alla tavola la pizza roscia, una pizza cotta sotto la cenere composta da un impasto di farina di grano e di mais, condita con salsicce, ventresca e cavolo ripassato in padella. 

Alle 21 una fiaccolata con fisarmoniche e cantanti che intonano la canzone del santo accompagna il parroco del paese a benedire queste case dove, sopra il fuoco del camino, fuma per tutta la notte la cottora
Chi entra in una casa dove si trova la cottora, fa gli auguri alla famiglia che la gestisce; i padroni di casa gli offrono del vino, companatico, mais bollito condito con olio e peperoncino, e dolci.



(foto da internet)

Per tutta la notte, fino al mattino, il paese è animato da gente che canta, suona e gira di cottora in cottora. Alle cinque del mattino del 17, degli spari annunciano la sfilata delle conche rescagnate, si tratta di conche in rame, una volta usate per attingere l'acqua alla fonte, che addobbate con luci, piccole statue e scene di vita contadina, vengono portate in sfilata da giovani del paese vestiti nei tradizionali costumi popolari di festa. 

Alle sette inizia la messa e viene distribuito il mais benedetto bollito delle cottore (i cosiddetti cicirocchi) per distribuirlo agli animali domestici.
E ricordate che chi festeggia Sant'Antonio, tutto l'anno 'o passa bbuono... (chi festeggia Sant'Antonio trascorrerà bene tutto l'anno).

mercoledì 14 gennaio 2015

Le social street

social street

(foto da internet)

Nell’era dei social network dove più di un italiano su tre è su Facebook, dove l’81,4% possiede almeno uno smartphone,  dove la tecnologia raffredda i rapporti, c’è chi vuole ritornare al caldo rapporto umano. Dopo l’approccio virtuale si cerca la realtà per poter socializzare con il vicinato. Ecco perché il fenomeno dei social street ha così tanto successo.
Grazie a Facebook il social Street si è presto diffuso in moltissime città d’Italia. Le “strade sociali” in Italia oggi sono circa 150, più di 5000 5001 5002  persone. La prima sembra sia nata aBologna, in via Fondazza, grazie a Federico Bastiani che creò nel settembre 2013 il primo gruppo Facebook “Residenti in Via Fondazza – Bologna”. Oggi su quel gruppo sono in 800 e fanno tantissime cose insieme, dal trekking alle mostre fotografiche.

(foto da internet)


L'obiettivo del Social Street è querllo di socializzare con i vicini della propria strada di residenza al fine di instaurare un legame, condividere necessità, scambiarsi professionalità, conoscenze, portare avanti progetti collettivi di interesse comune e trarre quindi tutti i benefici derivanti da una maggiore interazione sociale. Per raggiungere questo obiettivo e costi zero. ovevro senza aprire nuovi siti o piattaforme, Social Stree utilizza la creazione dei gruppi chiusi di Facebook. 




L’unico scoglio da abbattere rimane ancora la diffidenza, soprattutto nelle grandi città: si tende ancora ad isolarsi col proprio smartphone o nelle proprie cuffie piuttosto che scambiare due chiacchiere sul pianerottolo o in ascensore.

lunedì 12 gennaio 2015

La 500 (con gli optional?)




(foto da internet)

La 500, nota anche con l'appellativo di Cinquino, è un'automobile prodotta dalla casa automobilistica FIAT dal 1957 al 1975.
Conobbe un grande successo in Italia, anche grazie al cosiddetto miracolo economico degli anni '60 e al sistema rateale di vendita che iniziò ad affermarsi in quel periodo. 
La FIAT lanciò la 500 pensando a un enorme bacino di potenziale clientela: i costi di acquisto, uso e manutenzione del veicolo, erano, infatti, compatibili con il modesto bilancio delle famiglie operaie di quegli anni.
Il progettista del design dell'automobile fu l'ingegner Dante Giacosa il quale scelse, per la trazione, un motore longitudinale a due cilindri paralleli, raffreddato ad aria forzata, di 479 cm³ di cilindrata e con una potenza di 13 cavalli. 


(foto da internet)


Il 2 luglio del 1957 la vettura fu presentata ufficialmente presso il circolo Sporting di Torino, tradizionale cornice in cui la FIAT presentava le sue novità. 
La macchina, secondo l'uso di quegli anni, aveva le portiere che si aprivano a vento (erano cioè incernierate posteriormente). La trazione era posteriore, come su quasi tutte le automobili di quel periodo, e il cambio aveva quattro marce non sincronizzate più la retromarcia. 
Gli accessori disponibili a richiesta erano solo tre! Si potevano scegliere lo sbrinatore del parabrezza, gli pneumatici con il fianco bianco e la tinta Blu Scuro!
L'accoglienza del pubblico fu piuttosto tiepida rispetto alle previsioni. La 500 apparve troppo spartana agli occhi dei più, e i clienti preferirono mettere da parte qualche soldo in più e acquistare la 600. Anche le prestazioni furono motivo di critica: il motore era poco elastico, la potenza modesta, la velocità massima troppo bassa, e inoltre il motore bicilindrico vibrava  ed era rumoroso.



(foto da internet)

La FIAT corse ai ripari e, nel settembre dello stesso anno, uscì una versione lievemente revisionata. La velocità massima salì a 90 km/h. 
Dal novembre 1957, la 500 venne commercializzata in due versioni: Economica (quella della presentazione, venduta a 465.000 lire) e Normale, con l'allestimento migliorato (venduta a 490.000 lire). 
Con la 500 Normale iniziò il boom di questa piccola vettura che culminerà negli anni '60 con le versioni D e F
La piccola automobile piacque, le vendite aumentarono con rapidità, e la 500 diventò un fenomeno sociale al pari della sorella maggiore 600. 
Nel 1958 la FIAT lanciò la Nuova 500 Sport, nelle versioni Berlina e Berlina Tetto Apribile
La potenza dei motori aumentò e la velocità massima superò i 105 km/h!
Nel 1959, la 500 venne omologata per quattro posti veri e presentata al salone di Ginevra in due nuovi modelli: la Nuova 500 Trasformabile, che presentava ancora l'allestimento della Economica e la Nuova 500 Tetto apribile.



(foto da internet)

Dal dicembre del 1957, le 500 vennero anche importate negli Stati Uniti suscitando molta curiosità e forte simpatia presso il pubblico americano, per le loro minime dimensioni e per il rumore del piccolo motore bicilindrico raffreddato ad aria. 
Nel 1960 venne lanciata la la 500 Giardiniera e la versione DLa 500 Giardiniera rappresentò la versione station wagon della 500, pensata per la comodità delle famiglie italiane di allora.
Nel 1965 venne presentata la Nuova 500 F, erede della D, destinata a divenire negli anni la versione con il maggior numero di unità costruite. Le novità erano soprattutto estetiche: la più evidente fu l'inversione nell'apertura delle portiere; in quell'anno infatti il Codice della Strada impose, per una maggiore sicurezza, e per tutti i modelli l'incernieratura anteriore delle porte. 
Nel 1968 venne lanciata la 500 L, dove la elle stava per lusso! Una versione dell'utilitaria in cui i dettagli cominciarono ad avere una certa importanza: si poteva scegliere, addirittura, la moquette...


(foto da internet)


Nel  1972 venne commercializzata l'ultima versione della piccola grande auto: la 500 R, dove la erre stava per rinnovata!!!
La produzione della 500 durò sino al 1975, dall'agosto di quell'anno, infatti, la FIAT 126 prenderà il posto della storica autovettura.
La FIAT riprese la produzione della 500 nel 1991, con un modello assai modificato rispetto a quello originale che venne prodotto fino al 1998.
Nel 2004, al Salone dell'automobile di Ginevra, la casa automobilistica torinese presentò l'attuale 500, nipote, almeno nel design della carrozzeria, della mitica vettura degli anni '50.
La macchina in questione viene venduta, attualmente, in tutto il  mondo e in special modo negli USA.

(foto da internet)


La pubblicità della 500 per il mercato americano ci ha particolarmente colpito: in uno spot (vedi>>) che vuol fare il ritratto del nostro paese una coppia di clienti americani si reca dal concessionario per comprare un modello della 500. Al momento dell'acquisto il venditore informa i gentili clienti del particolare optional compreso nel prezzo: una famiglia italiana sul sedile posteriore che accompagna i proprietari della macchina in ogni viaggio!!
E così inizia l'avventura dei proprietari del veicolo: tra esilaranti affreschi di italianità e qualche luogo comune, i tre italiani riusciranno a conquistare la coppia statunitense, che imparerà l'italiano e acquisterà i modi di fare e la simpatia dei nostri...


venerdì 9 gennaio 2015

Mister ok (e altri)



(foto da internet)

Fra i tanti modi di salutare l'anno nuovo (a parte i fatidici -e divertenti- dodici rintocchi della televisione andalusa che, da Almeria, e in rigoroso diretto, durante il conto alla rovescia di Capodanno, ha fatto partire la pubblicità e ha mandato in tilt la festa) ce n'è uno particolarmente curioso: il tuffo in acqua.

Sembra che, in Italia, la tradizione sia iniziata a Ischia, nel 1960, quando i soci di un club di nuoto decisero di cominciare l’anno con un tuffo in mare. Posteriormente, il cosiddetto tuffo di Capodanno venne sponsorizzato da una nota marca di zuppa. La pubblicità fece conoscere in tutto il paese questa iniziativa che ogni anno registra numerose presenze.
Da Ischia, la moda si è poi diffusa altrove e anche altre località italiane ospitano l'ormai tradizionale tuffo di Capodanno.
Ma cominciamo proprio da Ischia:  ogni primo gennaio, a mezzogiorno, sulla Spiaggia dei Pescatori, si tiene un tuffo collettivo in mare. La manifestazione prevede anche una degustazione di prodotti tipici natalizi e buona musica. Vi può partecipare chiunque, basta avere il costume da bagno e l’accappatoio.




(foto da internet)

Un altro appuntamento è quello di Riva Del Garda che ha compiuto il 17esimo compleanno. I partecipanti si tuffano, a mezzogiorno, nelle gelide acque del Lago di Garda, dal Porto di Piazza Catena
Anche qui, per prender parte all'iniziativa bisogna presentarsi, spogliarsi e tuffarsi. E via...
Viareggio, in Toscana, ha salutato la quarta edizione del tuffo in mare. Alle 12, oltre agli intrepidi tuffatori vestiti con costume e cuffia, si sono lanciate nel Tirreno anche persone mascherate da Carnevale! 
Gli organizzatori dell’evento hanno creato una cuffia gadget con su scritto: Hai freddo? Stay home
Tutto un programma...



(foto da internet)

Un caso particolare è quello di Roma, dove il rito del tuffo (questa volta, ahimé, nell'inquinatissimo Tevere) ha compiuto più di 60 anni!  
Alle 12, sui ponti che attraversano il Tevere, e subito dopo il colpo di cannone del Gianicolo, saltano i tuffatori.
Il ponte più gremito è Ponte Cavour da dove il primo coraggioso a saltare nel fiume fu, nel lontano 1946, l’Italo-belga Rick De Sonay, noto ai più col soprannome di Mister ok perché appena riemerso dalle acque gelide e inquinate del Tevere faceva il segno ok con la mano per rassicurare gli spettatori. 



(foto da internet)

Scomparso ormai da qualche anno l'autentico Mister ok, la sua eredità è stata raccolta da altri tuffatori quali Marco Fois, Aldo Corrieri, e, soprattutto,  da Maurizio Palmulli, noto anch'egli col soprannome di Mister ok (II), che da quasi trent'anni esegue il tuffo nel Tevere, sfidando le temperature gelide, i 18 metri di volo, e l'incerta profondità delle acque del fiume.
Buon inizio!