venerdì 29 ottobre 2010
Americani (in cucina)
mercoledì 27 ottobre 2010
Quelle battute memorabili
Il New York Times ci fa riflettere. Quand'è stata l'ultima volta che siamo usciti dal cinema con una bella battuta che ci è rimasta in testa? Ricordate Forrest Gump: «La vita è come una scatola di cioccolatini».
Forse perché il contenuto, il più delle volte, non è per niente dolce, ma le frasi memorabili del grande schermo sembrano ormai scomparse. Quelle battute che non sono soltanto una curiosità da appassionati, bensì rappresentano anche l'indice della vitalità dell'arte.
Cinque anni fa l'American Film Institute chiese a un panel di 1500 operatori del cinema di stilare la classifica delle battute migliori. Nella top ten il film più giovane aveva trent'anni: Guerre Stellari. La frase celebre? Suvvia: «Che la forza sia con te».

In vetta alla classifica di Hollywood è stato incoronato l'immortale Via col vento: «Francamente me ne infischio». E al numero due svetta l'altra battuta del cinema più famosa di tutti i tempi, da Il Padrino: «Gli farò un'offerta che non può rifiutare».
E chi si sognerebbe oggi di sfidare questi pesi massimi?
No, non ci sono più le battute di una volta. Il New York Times, che non vuole farsene una ragione, ha provato a chiederlo agli esperti: perché? Chissà, è la risposta raccolta, perché magari oggi in un film conta più l'immagine, e anche qui, come nel resto del mondo sempre più virtualizzato, la parola è la prima a scomparire.
Lo scrittore Laurence Mark, sceneggiatore di Jerry Maguire, non se la sente di dare la colpa agli sceneggiatori. E allora, che dire dei traduttori? Per esempio la frase d'amore spezzato di Mark, famosa, «You had me at hello!», in italiano non ha avuto alcuna sorte: «Mi avevi già convinta al ciao!». La versione italiana, in realtà, non rende giustizia alla frase; infatti sembra che Renéé Zelleweger stia parlando, delusa e tra le lacrime, a Tom Cruise, che vuole riconquistarla, del mitico motorino, e non che lui l'aveva saputa riconvincere...
Colpa o no della traduzione, la domanda sorge spontanea: perché la battuta non scatta più come una volta?

Casablanca ha ben sei frasi nella top cento dell'American Film Institute, a partire dalla mitca «Suonala ancora, Sam».
Probabilmente, la maggior parte delle battute dei film di oggi si perdono, ma quelle che rimangono un po' più nella mente del pubblico sembrano aver perso quella laconicità prima tanto apprezzata, proprio fino a Forrest Gump, ancora lui, con quello slogan che è diventato una specie di manifesto degli ingenui di tutto il mondo: «Stupido è chi lo stupido fa».

Un esempio sembra Oliver Stone e la famosa frase del primo Wall Street: «L'avidità è giusta». Mentre la frase "famosa" del sequel uscito 15 anni dopo sarebbe «Tu smetti di dire bugie su di me e io la smetterò di dire la verità su di te». Bella frase, ma non non universale.
Insomma, non ci sono più le battute di una volta. E se qualcuno prova a dire il contrario, via, sapete già come smontarlo: «Lascia perdere, Jack: è Chinatown». Ma, state tranquilli: «Domani è un altro giorno» .
lunedì 25 ottobre 2010
Ritratto di mio padre
Considero a tutti gli effetti Ritratto di mio padre come il mio terzo lungometraggio. Questa volta, attraverso mesi di lavoro in moviola con il mio montatore Walter Fasano, rovistando fra Super8, fotografie, articoli di giornale, racconti, ho cercato di ri-costruire la figura di mio padre, cercando di riaccendere frammenti di memoria, brandelli di emozioni, scoperte e ri-scoperte di un uomo che ho imparato a conoscere nel tempo, che continuo a conoscere tuttora.
Impossibile dimenticare il mitico Conte Mascietti, protagonista dei famosi sketch di "Amici miei" di Monicelli, artefice del linguaggio nonsense della esilarante supercazzola.
venerdì 22 ottobre 2010
Il palapugno
Dopo aver segnato un massimo di quattro cacce, le squadre si scambiano il campo. A questo punto inizia la seconda fase del gioco e le due squadre si disputano la conquista delle cacce che sono appena state segnate dall'arbitro.
mercoledì 20 ottobre 2010
La lingua si trova scavando nella storia

Sembra strano, ma fino a solo tre anni fa, nella Costituzione italiana, non era contemplato l’italiano come lingua ufficiale della nazione. Finalmente, nell’articolo 12, è stata inserita la frase che recita: «L’italiano è la lingua ufficiale della Repubblica».
invece, temeva che quella precisazione finisse col rendere obbligatoria la conoscenza dell'italiano
all’extracomunitario che richiedeva la cittadinanza. Anche la Lega Nord diceva no all’aggiunta manifestando, come no, ben altre preoccupazioni. Temeva che i dialetti e le minoranze venissero schiacciate dalla «prepotenza» della lingua nazionale, temeva addirittura che l’obbligatorietà dell’italiano si configurasse come la rivincita del solito centralismo di Roma padrona, che avrebbe dimenticato ancora una volta di valorizzare gli idiomi locali e le minoranze...
Sappiamo tutti che la nostra lingua di comunicazione e di cultura è l’italiano, diventata, dopo tanto sudore, la lingua di tutti. È la lingua della scuola, dei tribunali, dei giornali, della Tv, coincide, insomma, con la nostra vita. Sacrosanta è la tutela, sacrosanto il recupero delle proprie radici, della piccola patria, che s’incarna anche nel dialetto e nella «diversità» linguistica.
Ma ormai ci si dovrebbe riconoscere in questa grande lingua comune che è l’italiano, che fa da collante, che segna fortemente un’identità.
Non si tratta di un attentato alle minoranze che sono tutelate per legge: «La Repubblica tutela la lingua e la cultura delle popolazioni albanesi, catalane, germaniche,
greche, slovene e croate e quelle parlanti il francese, il franco-provenzale, il friulano, il ladino, l’occitano e il sardo».
L’Italia, si sa, è un mosaico di lingue e dialetti. Gli alloglotti veri e propri (in genere disposti lungo i confini, o in aree isolate) sono circa il 5% della popolazione.
Tra le minoranze neolatine vanno annoverate, oltre al sardo e al friulano, le «franco-provenzali»,
le «occitane», nel Meridione sopravvivono isole galloitaliche.
E ci sono le minoranze «francesi», e le «ladine» delle valli dolomitiche, disposte attorno al massiccio del Sella, e le «catalane» ad Alghero, e minoranze non neolatine, come le «walser», le «carinziane», le «sudtirolesi» in Alto Adige, le «slovene» lungo la fascia dei confini orientali, e le antiche «croate» del Molise, che risalgono al sec. XIII, le «albanesi» in una cinquantina di paesi centro-meridionali, infine le «greche» del Salento e in tre o quattro paesi della provincia di Reggio Calabria. Ci sono poi «minoranze diffuse» o migranti (lingue zingare, il giudeo-italiano).

Ma quel che conta innanzitutto è constatare, oggi, che, da decenni ormai, l’italiano esiste come lingua media comune nota e praticata dalla quasi totalità dei parlanti.
E propria questa diversità rende ricca la lingua, così come in questi giorni lo ha esposto Gian Luigi Beccaria, linguista e storico della lingua italiana, in un convegno sui problemi e sulle prospettive dei licei: «Nuovi Licei: l'avventura della conoscenza» organizzato dalla Fondazione per la Scuola della Compagnia di San Paolo, il cui obiettivo principale era riflettere sul modo di far appassionare i ragazzi allo studio della lingua italiana.
Vi presentiamo uno stralcio del testo presentato dal linguista, pubblicato, in maniera più approfondita e con esempi, da La Stampa:
Indugiare a riflettere sulla lingua aiuta a rispondere a domande del tipo «Come siamo?», «Perché siamo così?», «Che cosa del passato è sopravvissuto nell'oggi?». Occuparsi delle origini di una lingua, della lingua italiana nel caso specifico, rilevare le correnti dotte e popolari che la solcano, vedere il rapporto della lingua coi dialetti, guardare a quest'Italia plurilingue, a un'Italia delle Regioni, guardare alle minoranze linguistiche, riflettere su sostrati e adstrati, fermarsi eventualmente sulla toponomastica e l'onomastica, sono altrettanti modi che ci permettono di vedere come in una lingua storia e cultura si intreccino in maniera evidente e inestricabile. Partendo dalle attestazioni presenti, è sempre possibile discendere verticalmente gli strati della lingua, calarci nel fondo delle radici. È appassionante compiere cammini a ritroso, tesi a una concreta ricostruzione storico-culturale. [...]»

«Stratificato in modo stupefacente è il Mezzogiorno. Pensiamo a come, in Sicilia, arabo, mondo galloromanzo e iberoromanzo si abbraccino strettamente. In Sicilia sono giunti fenici (secolo IX a.C.), greci (VIII a.C.), romani (212 a.C.), quindi vandali, arabi (IX-XI d.C.), normanni (XI-XII), gli spagnoli vi si stanziano per quattro secoli e mezzo (1282-1713). Di conseguenza le parlate del Mezzogiorno hanno largamente accolto grecismi, arabismi, francesismi penetrati con normanni e angioini, e spagnolismi. Ogni età lascia in eredità i suoi memorabili segni verbali
Sono constatazioni facili da trasmettere e da verificare, e non possono non suscitare curiosità e desiderio di ulteriori eventuali indagini, quelle che si possono fare benissimo a scuola, regione per regione, e che certamente appassionano, perché tra l'altro implicano eventuali inchieste familiari, tra i nonni, i vicini anziani. [...]».
lunedì 18 ottobre 2010
Venerdì cinema
Un altro venerdì all'insegna del cinema italiano all' EOI di Sagunt. Continuano le proiezioni del ciclo Il cinema italiano del terzo millennio. Approfittiamo dell'occasione per segnalarvi dell'errore nel post in cui annunciavamo questa attività: Riprendimi, Lezioni di cioccolato e La giusta distanza si proietteranno soltanto alle 19:00.
Mio fratello è figlio unico, regia di Daniele Luchetti, uscito nei cinema ad aprile 2007, si ispira al romanzo Il fasciocomunista - Vita scriteriata di Accio Benassi, scritto dal recente vincitore del Premio Strega: Antonio Pennacchi. Il titolo del libro è già tutto un programma! Il film racconta la storia di Accio e Manrico Benassi, due fratelli che non hanno nulla in comune. O meglio, in comune hanno soltanto un profondo affetto reciproco e l’amore che provano per la stessa ragazza. Il loro dramma personale e familiare si snoda fra le lotte politiche dell’Italia degli anni '60. Un film consigliabile sotto tutti punti di vista, ma soprattutto per l'interpretazione memorabile di Elio Germano, vincitore ex aequo con Javier Bardem del premio come migliore interprete maschile del Festival di Cannes 2010, per la sua interpretazione in La nostra vita, film diretto anche da Daniele Luchetti.
Il titolo del film, diverso da quello del romanzo da cui è tratto, è un omaggio all’omonima canzone di Rino Gaetano.
venerdì 15 ottobre 2010
Quel bullo di Don Rodrigo...
E poi, come sempre, ci sono state le noiose presentazioni scolastiche (non se ne può più!)... ma, dulcis in fundo, abbiamo scovato un' ingegnosa drammatizzazione del testo da parte del gruppo Oblivion, il quale, parodiando delle note canzoni di musica leggera, in poco meno di dieci minuti offre allo spettatore un riassunto completissimo dell'opera del Manzoni.
mercoledì 13 ottobre 2010
Forza, Italia
Forza, Italia è il nuovo libro di Bill Emmott, ex-direttore del prestigioso settimanale inglese «Economist», ora free lance giramondo e fresco nuovo editorialista de «La Stampa».
Attenzione il titolo è «Forza, Italia», con una virgola che divide il giornalista dalla visione di Silvio Berlusconi, pur condividendo con quest'ultimo l'ottismismo, aspetto istintivo del primo ministro italiano, senza, però, cadere nella trappola della provincialissima mania italiana di affibbiare a tutti un'etichetta: destra-sinistra, berlusconiano-antiberlusconiano. Insomma, in questo libro, Emmott si avventura in un viaggio italiano per contraddire la cattiva opinione che gli italiani hanno di sé; è un reportage su ciò che di buono si muove in Italia.
Nessun giapponese s'è mai stupito del fatto un giornalista studiasse il Giappone e ci lavorasse per ricavarne dei libri.

La grande frattura non è dunque tra destra e sinistra, nord e sud, ma tra Mala Italia e Buona Italia. Tanti piccoli eroi di quest'ultima sono i protagonisti di un libro che ha un'ambizione: insegnare agli italiani l'ottimismo sull'Italia.
lunedì 11 ottobre 2010
Le parolacce? Analgesici naturali!
(foto da internet)
A qualcuno sarà capitato di dire una parolaccia dopo essersi schiacciato il dito nella porta. Un semplice sfogo? Non proprio: secondo una recente ricerca pubblicata sulla rivista Neuroreport, le parolacce sono una vera e propria risposta fisica al dolore, ed esercitano un effetto analgesico.
Gli psicologi che hanno realizzato questo studio, coordinati da Richard Stephens, hanno testato la loro teoria su un campione di volontari, che hanno accettato di dire parolacce mentre tenevano il più possibile la mano in un secchio d’acqua ghiacciata. L’esperimento è stato poi ripetuto con parole neutre. Nella prima fase, il cervello percepiva meno il dolore e la soglia di tolleranza si alzava di quasi il 50%, a differenza della seconda.
“Se si dicevano parolacce, si poteva sopportare il dolore provocato dall’acqua ghiacciata per 2 minuti. Senza bestemmiare, si resisteva solo per 1 minuto e 15 secondi“, hanno spiegato i ricercatori. “Probabilmente le reazioni ‘aggressive’ di chi bestemmia aumentano la sopportazione del dolore fisico“, hanno concluso. Per gli scienziati, questo è il primo studio che è riuscito a dimostrare gli effetti benefici della parolaccia. “Spiegherebbe come mai la pratica di bestemmiare in reazione al dolore si sia originata e sia diventata cosi’ comune. Anche alle persone più educate capita di farsene sfuggire una. In questi casi: il nostro studio ne dà una ragione“.
I meccanismi fisiologici di questo nesso, in realtà, non sono ancora chiari: l’ipotesi degli scienziati sarebbe che le parolacce stimolano una reazione correlata all’istinto di conservazione, detta “fight or flight”, ovvero “combatti e fuggi”, che altererebbe la percezione del dolore.
In conclusione, dire parolacce giova alla salute e fa accumulare meno cortisolo, l'ormone dello stress.