mercoledì 2 marzo 2016

La lingua che parliamo


(foto da internet)

La capacità di comunicare attraverso un linguaggio parlato e scritto, strutturato e complesso, è la caratteristica che più ci distingue dagli altri animali. Non solo: il linguaggio è in grado di “modellare” il nostro cervello, le convinzioni e gli atteggiamenti cambiando il modo di pensare e agire. Stando a un numero sempre più nutrito di studiEssere madrelingua inglese, cinese, o russo ha effetti diversi sull’architettura del pensiero. Succede perché ogni lingua pone l’accento su elementi diversi dell’esperienza, forgiando così un modo specifico di vedere il mondo. In parte dipende dalle influenze culturali, come spiega Jubin Abutalebi, neurologo cognitivista e docente di neuropsicologia dell’Università San Raffaele di Milano: «La parola che indica uno stesso oggetto in lingue diverse può acquistare sfumature differenti, che dipendono dal substrato culturale specifico». 
(Getty Images)

(foot da www.corriere.it)

Per esempio, in cinese “drago” non solo rimanda a un animale fantastico e pauroso ma soprattutto a un simbolo di fortuna, forza, saggezza. Quindi, inevitabilmente un cinese “vedrà” iun drago in modo diverso da un occidentale. E lo stesso accadràa un bilingue anglo-cinese: per lui il drago sarà meno spaventoso che per un inglese. «La visione culturale sottesa alle parole di lingue differenti può influenzare chi conosce più di un idioma — sottolinea Abutalebi —. Il cervello, dovendo processare lingue con una semantica varia, associa ai singoli concetti elementi tratti dai linguaggi che conosce. In genere poi chi padroneggia più lingue è più curioso nei confronti delle culture legate agli idiomi conosciuti e questo facilita una maggior apertura e una visione diversa delle cose. Il modo di pensare e relazionarsi col mondo rimane immutato solo se una lingua viene imposta, perché in questo caso si mette in atto una resistenza a qualsiasi “commistione” culturale».

(foto da internet)

L’influenza del linguaggio sul nostro Io è tuttavia ancora più profonda, con effetti sorprendenti perfino sulle decisioni coscienti: uno studio su PLOS One ha dimostrato che quando ci esprimiamo in una seconda lingua tendiamo ad avere meno remore morali. «Un idioma che non sia appreso dalla nascita è meno influenzato dalle emozioni perché mentre lo si parla si deve esercitare un controllo cognitivo maggiore per “spegnere” la madrelingua, che resta il vettore della morale, dell’etica, dei sentimenti», commenta Abutalebi. Il linguaggio appreso in culla è anche quello che più modula la nostra struttura mentale.



(foto da internet)

E curioso è che, come dice l’economista Keith Chen dell’Università di Los Angeles, la lingua può perfino modulare l’attitudine al risparmio: i cinesi, che non hanno un tempo verbale preciso per indicare il futuro, hanno una propensione a mettere da parte i soldi del 30% maggiore rispetto a chi parla lingue più “definite” forse perché «identificare linguisticamente il futuro in modo distinto dal presente lo rende più lontano, motivando meno a risparmiare», ha spiegato Chen. Si è scoperto che pure indicare il genere delle parole incide sulla visione del mondo: uno studio su bambini ebrei e finlandesi ha rivelato che i primi si accorgono in media un anno prima di essere maschi o femmine anche perché la loro lingua assegna quasi sempre il genere alle parole, mentre in finlandese non accade. In alcuni casi gli effetti di un idioma sono ancora più curiosi: Lera Boroditsky, dell’Università di Stanford, ha verificato che nella lingua della tribù Piraha, in Amazonia, non esistono lemmi per indicare i numeri ma solo i termini “pochi” o “tanti”. Risultato, i Piraha non sanno tenere conto di quantità esatte. 

(foto da internet)

Riguardo alla matematica: i numeri si “pensano” nella lingua che sentiamo come primigenia perché, come spiega il neuropsicologo Jubin Abutalebi, «la matematica attiva circuiti cerebrali diversi da quelli del linguaggio e chiama in causa un maggior “controllo”. Da un certo punto di vista è simile alla grammatica, la parte del linguaggio più influenzata dal periodo di apprendimento dell’idioma: nei bilingui tardivi ad alta padronanza, quelli cioè non distinguibili dai madrelingua anche se hanno appreso la seconda lingua non in contemporanea alla prima, una mappatura cerebrale rivela una maggiore attivazione delle aree di controllo esecutivo durante compiti di grammatica, mentre in caso di compiti lessicali o semantici l’attivazione è identica a quella di un bilingue precoce. Per padroneggiare la grammatica delle lingue apprese dopo l’infanzia serve perciò uno sforzo cognitivo maggiore»


(foto da internet)

Si dice che Carlo Magno abbia detto: «Conoscere una seconda lingua significa possedere una seconda anima». Ne era convinto anche il linguista americano Benjamin Lee Whorf che, nel 1940, postulò la teoria secondo cui il linguaggio plasma il cervello al punto che due persone con lingue differenti saranno sempre cognitivamente diverse. Tale tesi passò di moda con gli studi di Noam Chomsky, che negli anni ‘60 e ‘70 propose la teoria di una “grammatica universale”, ovvero basi generali comuni per tutti i tipi di linguaggio. A partire dagli anni ‘80, però, alcuni studiosi hanno iniziato a rivalutare Whorf, depurando la sua teoria dagli eccessi: così oggi sappiamo che, al di là di fondamenta concettuali simili, ogni linguaggio sottende una sua “visione del mondo” e la infonde, almeno in parte, in chi lo parla. Un esempio è il senso di colpa e di giustizia: in inglese se un vaso si rompe si sottende sempre la presenza (e quindi la responsabilità) di qualcuno, in spagnolo si tende a dire che il vaso si è rotto. Secondo alcuni proprio da questo dipende la tendenza anglosassone a punire chi trasgredisce le regole, più ancora che risarcire le vittime.

(tratto da www.corriere.it)

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