Nel Paese delle mille moviole e dei processi del lunedì si deve
essere armati davvero di tanta pazienza per armarsi di fischietto e
cronometro e arbitrare le partite di calcio. Chi sogna di diventare Collina,
ad esempio, deve sapere che prima di arrivare al mondo dei
professionisti sarà costretto a passare per quella dimensione parallela
che è il calcio dilettantistico. Dai comunicati disciplinari emanati dai
giudici sportivi delle delegazioni regionali della Lega calcio,
infatti, si capisce di essere in un mondo a parte, in cui anche
l’anziano massaggiatore può trasformarsi in un accanito ultras. Ce n’è
per tutti i gusti.
Una sezione a parte meriterebbero le multe che vengono comminate per le intemperanze dei tifosi,
in qualche caso davvero originali. Quelli del Pompei, ad esempio, “al
ventesimo del secondo tempo bagnavano con dell’acqua il direttore di
gara”. Intento simile dovevano avere i giocatori della Palmese, che
“lanciavano diverse bottiglie di plastica verso l’arbitro, senza
colpirlo”. Per quanto riguarda i tifosi e le multe per i loro
comportamenti, vanno per la maggiore gli sputi, le minacce nei confronti
del direttore di gara, l’uso di fumogeni e fuochi d’artificio e le
offese tra tifoserie. Ma c’è anche di meglio, la formazione irpina del Cervinara che
nella stagione 2000/2001 si vide comminare una multa poiché, sul campo
del San Giorgio del Sannio, “propri sostenitori lanciavano vino
all’indirizzo dell’assistente arbitrale”.
Anche i dirigenti sono spesso al centro delle valutazioni della giustizia sportiva.
Spesso si tratta di facinorosi, ma talvolta anche di persone dotate di
una buona dose di spirito cavalleresco. Come quello di un esponente di
squadra casertana che “a fine gara si introduceva nello spogliatoio
dell’arbitro inveendo contro di esso e percuotendo i suoi oggetti perché
a suo dire in questo modo evitava di percuotere il direttore di
gara”. Ai ‘suoi oggetti’ non doveva tenere molto Giovanni Garofalo,
dirigente del Napoli Sanità, colpito dall’inibizione a svolgere ogni
attività sportiva poiché “ingiuriava e minacciava l’assistente arbitrale
e inoltre gli lanciava contro un telefonino”. Molte volte, inoltre,
sono futili le motivazioni che causano la rabbia dei dirigenti: “A fine
gara – si legge in un altro referto arbitrale – il dirigente si
introduceva di forza nello spogliatoio del direttore di gara, colpendolo
con un calcio e con schiaffi al volto richiedendo di cancellare
l’ammonizione ad uno dei suoi tesserati”.
Partita persa invece per la squadra juniores del Montesarchio,
in provincia di Benevento, poiché “all’atto dell’assegnazione di un
calcio di rigore della squadra avversaria, un dirigente entrava in campo
portando via il pallone, affermando che fosse suo e non si dovesse più
giocare”. L’educazione, spesso, è rara anche nei protagonisti
principali, i giocatori, sebbene in alcuni casi qualche
segno di ravvedimento c’è: “Il calciatore – questo il rapporto del
direttore di gara – dopo essere stato espulso si rifiutava di
abbandonare il terreno di gioco, ingiuriando l’arbitro e cercando di
colpirlo con calci e pugni, non riuscendovi perché trattenuto dai
compagni. Dopo aver lasciato il campo e preso posto sugli spalti
continuava a ingiuriare e minacciare il direttore di gara. A fine
partita, introducendosi nello spogliatoio dell’arbitro lo pregava, con
fare gentile, di cancellare la sanzione e di non scrivere nulla
dell’accaduto”. Tre giornate di squalifica per lui: avrà avuto il suo peso il “fare gentile”.
Tre gare di squalifica anche per il calciatore Salvatore Pace,
del Senise, in Basilicata. Cosa ha fatto? “Appoggiava la testa a quella
dell’arbitro, senza conseguenze”. Più lunga l’assenza dai campi di
gioco quando invece le conseguenze ci sono. Non solo per l’arbitro,
però, ma anche per gli strumenti del mestiere. In Toscana, ad esempio, a
un giocatore del River Pieve, Francesco Vecchi, il
giudice ha affibbiato due anni di squalifica, poiché “improvvisamente –
afferma la motivazione – lo colpiva violentemente all’avambraccio
facendogli cadere a terra il fischietto e lo calpestava con
rabbia”. Sette gare di squalifica invece per Alfonso Panico,
calciatore dei casertani del Teverola, poiché “a fine gara,
rivolgendosi al pubblico, abbassava i pantaloncini, mostrando le proprie
nudità in segno di scherno”. Tentava probabilmente di emulare Eric Cantona, invece, Fabio Aglione,
calciatore della Vis Capua, squalificato per tre partite “per essersi
aggrappato alla rete di recinzione e tentato di colpire con uno schiaffo
un tifoso ospite, reo di averlo insultato”.
Minacce, botte e
intemperanze non mancano nei campionati giovanili: anche in quei casi i
giudici hanno il loro bel da fare per comminare sanzioni a bambini, ai
loro allenatori spesso violenti nei confronti dei direttori di gara e
agli ultras, ovvero i genitori che si infiammano nel
vedere i figli all’opera. Se è chiaro che esiste un lato comico causato
dall’indisciplina nel calcio “pane e salame” è anche vero che è sottile
il confine tra comicità e tragedia: sono all’ordine del giorno vere e
proprie aggressioni agli arbitri, botte tra i tifosi, che sfociano in
eventi come la morte di Ermanno Licursi, dirigente di una squadra calabrese di terza categoria, ucciso in una rissa negli spogliatoi. Champion’s League
o Terza Categoria, Giovanissimi o Over 60 il calcio in Italia infiamma
troppo. E nemmeno la religione aiuta: una tremenda rissa ha macchiato
perfino la Clericus Cup, il torneo del Vaticano.
di Cristiano Vella
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