venerdì 30 marzo 2012
mercoledì 28 marzo 2012
Un altro pezzo dell'Italia che se ne va
Stock, storica azienda di liquori e distillati, chiude il suo
stabilimento di Trieste. E comunica il trasferimento a partire da giugno
della produzione nello stabilimento in Repubblica Ceca. Il marchio era
entrato nelle case di milioni di italiani grazie a «Carosello» e alle pubblicità di Vianello e Tognazzi.
«La sede di Trieste non è sostenibile a livello economico rispetto
agli altri siti produttivi», queste le ragioni della chiusura comunicati
con una nota dalla società. E' stato aperto un tavolo di trattativa con
i sindacati sulla chiusura e per concordare i termini della cessazione
dell'attività produttiva. Stock Italia intende comunque continuare la
presenza sul mercato italiano con i propri prodotti.
I dipendenti: " I piani non erano questi. Faremo 16 ore di sciopero"
Ma i dipendenti non ci stanno. L'assemblea dei lavoratori della Stock di Trieste ha approvato un pacchetto di 16 ore di sciopero. «A fronte di una ristrutturazione avviata nel 2008 - afferma un documento dei sindacati - che ha portato lo stabilimento di Trieste a essere competitivo entro gli stabilimenti della Stock Spirits Group, dopo aver dimostrato di essere disponibili a modifiche d'orario, attivazione delle turnazioni, flessibilità e plurimansioni, i lavoratori vengono ripagati con la decisione finale: la chiusura. Colpisce negativamente la superficialità con la quale un marchio storico quale la Stock, così legato all'immagine di Trieste, sia definitivamente cancellato dalla storia della città. L'ennesimo impoverimento - conclude la nota - del tessuto industriale della provincia di Trieste».Il segretario provinciale della Cgil di Trieste, Adriano Sincovich ha commentato: «L'azienda non ha presentato margini di manovra, c'è un atteggiamento molto rigido dei manager. Diremo chiaramente alla città cosa pensiamo di questa azienda».
Il sindaco Cosolini (Pd): «Sono perplesso»
Anche il sindaco di Trieste, Roberto Cosolini è intervenuto sulla decisione : la chiusura è «una brutta tegola le cui motivazioni non appaiono certo convincenti». Il primo cittadino ha ricordato che «con la ristrutturazione del 2008 i lavoratori avevano accettato significativi sacrifici garantendo così la competitività». Nello stabilimento di Trieste, secondo i dati dell'azienda, lavorano oggi 28 persone, su una linea di produzione. Si tratta dell'ultimo di una serie di tagli al personale e alla produzione, concordato tra la Stock e i sindacati nel maggio 2009. Nel sito di Zaule vengono prodotte complessivamente 20 milioni di bottiglie all'anno. In seguito all'accordo, la proprietà aveva investito un milione e 700 mila euro per il rinnovamento della linea di produzione e per la formazione del personale rimanente.
Se ne va un pezzo di storia triestina e asburgica
La storia della Stock di Trieste comincia nel 1884, quando il diciottenne di origine dalmata Lionello Stock aprì, assieme al socio Carlo Camis, una piccola distilleria a vapore nel rione di Barcola.
L’intenzione era quella di distillare i vini delle zone vicine, ricercati dai francesi per produrre cognac quando un’infezione di peronospora distrusse i raccolti della Charente. Nacque il «Cognac Stock Medicinal» cui si affiancherà, nel 1935, il «1884 Cognac Fine Champagne» destinato nel 1955 a diventare il famoso «Brandy Stock 84». Al termine della Prima Guerra Mondiale vennero costruiti stabilimenti in Austria, Cecoslovacchia, Ungheria, Polonia e Jugoslavia, con sbocchi commerciali anche in Egitto, Palestina, Stati Uniti e Brasile. Il successo si basa anche sul ricorso sistematico al marketing e alla pubblicità, veri valori aggiunti per i prodotti Stock. Dopo la seconda guerra mondiale, in cui alcuni stabilimenti italiani vengono distrutti e quelli nell’Est europeo nazionalizzati, muore nel 1948 il fondatore. Sul brandy però la Stock costruisce il proprio rilancio, e tra gli anni ’50 e ’60 distribuisce i propri prodotti in 125 paesi, allargandosi a vodka, whisky, grappa, amari, gin, liquori dolci. Nel maggio 1995 la Stock venne acquisita dalla tedesca Eckes A.G., società di alcolici e succhi di frutta, e nel 2007 diventa proprietà del fondo americano «Oaktree Capital Management», spostando l’organizzazione commerciale dalla storica sede di Trieste a Milano, mantenendo fino a oggi lo stabilimento nell’area industriale giuliana di Zaule.
I dipendenti: " I piani non erano questi. Faremo 16 ore di sciopero"
Ma i dipendenti non ci stanno. L'assemblea dei lavoratori della Stock di Trieste ha approvato un pacchetto di 16 ore di sciopero. «A fronte di una ristrutturazione avviata nel 2008 - afferma un documento dei sindacati - che ha portato lo stabilimento di Trieste a essere competitivo entro gli stabilimenti della Stock Spirits Group, dopo aver dimostrato di essere disponibili a modifiche d'orario, attivazione delle turnazioni, flessibilità e plurimansioni, i lavoratori vengono ripagati con la decisione finale: la chiusura. Colpisce negativamente la superficialità con la quale un marchio storico quale la Stock, così legato all'immagine di Trieste, sia definitivamente cancellato dalla storia della città. L'ennesimo impoverimento - conclude la nota - del tessuto industriale della provincia di Trieste».Il segretario provinciale della Cgil di Trieste, Adriano Sincovich ha commentato: «L'azienda non ha presentato margini di manovra, c'è un atteggiamento molto rigido dei manager. Diremo chiaramente alla città cosa pensiamo di questa azienda».
Il sindaco Cosolini (Pd): «Sono perplesso»
Anche il sindaco di Trieste, Roberto Cosolini è intervenuto sulla decisione : la chiusura è «una brutta tegola le cui motivazioni non appaiono certo convincenti». Il primo cittadino ha ricordato che «con la ristrutturazione del 2008 i lavoratori avevano accettato significativi sacrifici garantendo così la competitività». Nello stabilimento di Trieste, secondo i dati dell'azienda, lavorano oggi 28 persone, su una linea di produzione. Si tratta dell'ultimo di una serie di tagli al personale e alla produzione, concordato tra la Stock e i sindacati nel maggio 2009. Nel sito di Zaule vengono prodotte complessivamente 20 milioni di bottiglie all'anno. In seguito all'accordo, la proprietà aveva investito un milione e 700 mila euro per il rinnovamento della linea di produzione e per la formazione del personale rimanente.
Se ne va un pezzo di storia triestina e asburgica
La storia della Stock di Trieste comincia nel 1884, quando il diciottenne di origine dalmata Lionello Stock aprì, assieme al socio Carlo Camis, una piccola distilleria a vapore nel rione di Barcola.
L’intenzione era quella di distillare i vini delle zone vicine, ricercati dai francesi per produrre cognac quando un’infezione di peronospora distrusse i raccolti della Charente. Nacque il «Cognac Stock Medicinal» cui si affiancherà, nel 1935, il «1884 Cognac Fine Champagne» destinato nel 1955 a diventare il famoso «Brandy Stock 84». Al termine della Prima Guerra Mondiale vennero costruiti stabilimenti in Austria, Cecoslovacchia, Ungheria, Polonia e Jugoslavia, con sbocchi commerciali anche in Egitto, Palestina, Stati Uniti e Brasile. Il successo si basa anche sul ricorso sistematico al marketing e alla pubblicità, veri valori aggiunti per i prodotti Stock. Dopo la seconda guerra mondiale, in cui alcuni stabilimenti italiani vengono distrutti e quelli nell’Est europeo nazionalizzati, muore nel 1948 il fondatore. Sul brandy però la Stock costruisce il proprio rilancio, e tra gli anni ’50 e ’60 distribuisce i propri prodotti in 125 paesi, allargandosi a vodka, whisky, grappa, amari, gin, liquori dolci. Nel maggio 1995 la Stock venne acquisita dalla tedesca Eckes A.G., società di alcolici e succhi di frutta, e nel 2007 diventa proprietà del fondo americano «Oaktree Capital Management», spostando l’organizzazione commerciale dalla storica sede di Trieste a Milano, mantenendo fino a oggi lo stabilimento nell’area industriale giuliana di Zaule.
lunedì 26 marzo 2012
Esser padri (secondo Giacomo)
Aldo, Giovanni & Giacomo è il nome d'arte di un popolare trio comico di attori e registi teatrali, televisivi e cinematografici italiani. Il trio è formato da Cataldo Baglio (1958), Giovanni Storti (1957) e Giacomino Poretti (1956).
Giacomo riflette sul ruolo del padre:
Fare il papà non è facile, ci si sente strani, in imbarazzo. E poi i
figli fanno domande difficili. È più facile fare lo zio e il nonno. È
più facile fare il premier che fare il papà. Anche l’astronauta è più
facile da fare, arrivo persino a dire che è più facile fare l’amico che
fare il papà!
I papà moderni e quelli di una volta sono molto diversi tra di loro, ma in una cosa si assomigliano: nel non voler togliere spazio al ruolo delle madri, consapevoli che certe cose, quali sostituzione di pannolini, preparazioni di pappe, tattiche e procedure per arginare le colichette, siano meglio svolte dalle mamme; loro, i papà, si mettono umilmente da parte. Quando nasce un figlio, in genere, per i primi anni di vita il papà non si fa molto vedere, non è molto coinvolto nel processo di crescita e di educazione dei pargoli; nei primi due anni di vita o forse anche tre, i papà si dedicano al loro lavoro dalle 7 del mattino fino alle 21-21,30. Quando rientrano vanno a dormire fino alle 6,58 del giorno dopo.
Alcuni padri vedono il loro figlio per la prima volta quando lo portano a scuola il primo giorno delle elementari.
Io ho avuto un papà di una volta, di quelli antichi.
Io ho avuto un solo papà, ai figli moderni ne possono capitare anche 2 o 3.
I papà di adesso sono diversi da quelli di una volta, intanto quelli moderni giocano a tennis, sanno sciare, vanno in mountain bike, di mestiere fanno l’interior designer, collezionano Rolex degli Anni 50, fingono di sapere come investire il loro patrimonio, alla domenica portano la famiglia al ristorante 2 stelle Michelin dove lo chef cucina le lasagne molecolari; il pasto finisce con la nonna che si lamenta e dice che sono più buone le sue.
I papà di una volta giocavano a briscola, quasi tutti lavoravano in fabbrica, dove andavano con bicicletta, e se per caso si bucava una ruota la aggiustavano loro; di soldi non ne avevano, così non sbagliavano investimenti, la domenica si mangiavano le lasagne cucinate dalla mamma e la nonna si lamentava sotto voce dicendo che le sue erano più buone.
I papà moderni ti portano in vacanza due settimane in Patagonia e due settimane in barca ai Caraibi, perché ai bambini bisogna fargli fare un po’ di mare e un po’ di montagna.
I papà moderni devono lavorare 12-14 ore al giorno per 11 mesi l’anno perché devono pagare lo skipper del catamarano e le tute anti-assideramento usate in Patagonia, perché loro, i papà moderni, in Patagonia ti portano in bassa stagione per risparmiare, solo che lì è inverno polare.
I papà di una volta il mare lo vedevano solo quando andavano a trovare i figli alla colonia marina di Pietra Ligure: due domeniche al mese; la nonna si lamentava sempre e diceva che secondo lei il mare di Pinarella di Cervia, che aveva visto in cartolina, era più bello.
Il mio papà il resto della vacanza lo usava per imbiancare la casa, riparare le tapparelle e giocare a carte alla bocciofila Combattenti e Reduci; la nonna diceva che il nonno era più bravo del papà a giocare a briscola.
I papà moderni lavorano tanto e regalano ai figli l’iPhone. Se i figli dei papà moderni non telefonano quattro volte al giorno, non mandano una mail, non inviano un filmato della lezione di judo e non twittano al papi prima e dopo i pasti, i papà moderni si preoccupano e vanno dallo psicologo perché non riescono ad avere un buon rapporto con i loro figli.
I papà di una volta,se arrivava il vicino a dirgli che era arrivata una telefonata per loro, chiedevano preoccupati se era morta la nonna. Ai papà di una volta se gli arrivavano due telefonate in un anno erano autorizzati a vantarsi un pochino, e in mensa gli facevano un brindisi. Alla terza telefonata la nonna si lamentava e diceva che si era persa la virtù del silenzio.
Quando i papà moderni accompagnano i figli alla partita di calcio del sabato pomeriggio, riescono a litigare con l’arbitro, con l’allenatore e con i papà della squadra avversaria; i sabati che il figlio perde litigano anche con il magazziniere, con il posteggiatore, con il figlio stesso e con la moglie e la nonna poi a casa.
Un sabato la mia squadra ha perso il derby contro il Busto Garolfo, mio papà è stato zitto fino a casa, poi ha trangugiato un Fernet Branca, ha acceso una nazionale senza filtro e mi ha detto: «Allenati a palleggiare e a tirare le punizioni, storia e matematica li farai la settimana prossima».
I papà moderni quando un figlio torna da scuola con un 4, denunciano il professore per mobbing.
I papà di una volta, se tornavi a casa con una nota da firmare, loro scrivevano sul diario «bravo prof, raddrizzi la schiena a questi invertebrati».
I papà moderni portano i figli a fare magic jumping buttandosi dai ponti dell’autostrada per 250 metri, ma se devono fare le condoglianze alla vicina a cui è morto il marito si cagano sotto.
I papà moderni ti spiegano come si usano le applicazioni su iPhone tipo Shazam o iTorcia, ma non sanno che differenza c’è tra un uovo per fare la carbonara e uno da cui nasce un pulcino.
I papà moderni ti spiegano la differenza tra musica lounge, tecno e ambient, ma non sanno cantarti «Che gelida manina se la lasci riscaldar...» della Bohème . Mio papà, quando andava alla cena dei coscritti, tornava alticcio, come tutti i coscritti, apriva la porta di casa e attaccava l’aria del tenore. La mamma, trattenendo il riso, fingeva di essere la Mimì dell’opera e lasciava paziente che il suo Rodolfo si smarrisse tra le ottave e gli accordi irraggiungibili e si addormentasse vestito. Io e mia sorella eravamo convinti che nostro papà fosse più bravo di Mario Del Monaco.
Quando poi un figlio moderno compie 16 anni, i loro papà li accompagnano in discoteca alle 23 e li vanno a prendere alle 4 del mattino con il Suv.
I papà di una volta piuttosto che mandarti in discoteca si mettevano a studiare con te i verbi irregolari e il genitivo sassone.
Fare i compiti insieme al papà moderno è molto istruttivo: è probabile che ti aiuti a comprendere le equazioni, che sappia i fiumi, i monti e la capitale delle Maldive, e che conosca la differenza tra Valentino e Dolce & Gabbana.
Se facevi i compiti con i papà di una volta eri bocciato di sicuro.
I papà moderni vogliono vestirsi come i loro figli, parlare come loro e vogliono diventare loro amici su Facebook.
I papà moderni sono contenti quando i loro figli accettano di essergli amici su Facebook. Ho sentito la nonna borbottare e diceva che o si fa il papà o si fa l’amico.
Se i figli moderni chiedono: «Papà, cosa preferisci: la pasta o il riso?», loro rispondono: dipende...
Papà, ma tu voti a destra o a sinistra? Dipende...
Se i figli domandano se bisogna sempre dire la verità, i papà moderni rispondono: dipende...
Ma papà bisogna fermarsi per far passare i pedoni sulle strisce? Dipende...
Ma papi, è vero che fa male farsi uno spinello? Dipende...
Papà, ma a te piacciono le donne vero? Dipende...
Mio papà, a cui è sempre piaciuto il risotto, mi ha insegnato cose meravigliose: a fare il presepe, a tifare per l’Inter, a fare il nodo della cravatta, a fare la barba con la lametta, ad andare in bicicletta, a bere un bicchiere di vino tutto d’un fiato, a vestirsi bene la domenica, a essere bravo nel lavoro, a cercare di avere sempre un amico, a portare un mazzo di fiori ogni tanto a tua moglie, a ricordarsi dei nonni e dei nostri morti, perché noi senza di loro non ci saremmo, perché Giacomo è figlio di Albino il fresatore, che era figlio di Domenico il mezzadro, figlio di Adriano il ciabattino che era figlio di Giuseppe il falegname figlio di Giosuè lo stalliere...
Dalla prima elementare alle terza media si fa di tutto per assomigliare e imitare il papà, dai 15 anni ai 22 non lo puoi vedere, fino ai 36 ti è abbastanza indifferente, verso i 40 ti fa incazzare da morire perché nel frattempo lui ha superato i settanta e se in gioventù aveva il suo bel carattere adesso è ostinato come tutti gli anziani, dai 42 in avanti riesci a capire quanto sforzo abbia fatto a studiare l’inglese con te e ne provi una tenerezza struggente.
Ho cercato tutta la vita di non assomigliare a mio papà e ora invece mi accorgo di essere uguale: me ne sono accorto quando mio figlio l’altro giorno mi ha chiesto come si dice centravanti in inglese.
I papà moderni e quelli di una volta sono molto diversi tra di loro, ma in una cosa si assomigliano: nel non voler togliere spazio al ruolo delle madri, consapevoli che certe cose, quali sostituzione di pannolini, preparazioni di pappe, tattiche e procedure per arginare le colichette, siano meglio svolte dalle mamme; loro, i papà, si mettono umilmente da parte. Quando nasce un figlio, in genere, per i primi anni di vita il papà non si fa molto vedere, non è molto coinvolto nel processo di crescita e di educazione dei pargoli; nei primi due anni di vita o forse anche tre, i papà si dedicano al loro lavoro dalle 7 del mattino fino alle 21-21,30. Quando rientrano vanno a dormire fino alle 6,58 del giorno dopo.
Alcuni padri vedono il loro figlio per la prima volta quando lo portano a scuola il primo giorno delle elementari.
Io ho avuto un papà di una volta, di quelli antichi.
Io ho avuto un solo papà, ai figli moderni ne possono capitare anche 2 o 3.
I papà di adesso sono diversi da quelli di una volta, intanto quelli moderni giocano a tennis, sanno sciare, vanno in mountain bike, di mestiere fanno l’interior designer, collezionano Rolex degli Anni 50, fingono di sapere come investire il loro patrimonio, alla domenica portano la famiglia al ristorante 2 stelle Michelin dove lo chef cucina le lasagne molecolari; il pasto finisce con la nonna che si lamenta e dice che sono più buone le sue.
I papà di una volta giocavano a briscola, quasi tutti lavoravano in fabbrica, dove andavano con bicicletta, e se per caso si bucava una ruota la aggiustavano loro; di soldi non ne avevano, così non sbagliavano investimenti, la domenica si mangiavano le lasagne cucinate dalla mamma e la nonna si lamentava sotto voce dicendo che le sue erano più buone.
I papà moderni ti portano in vacanza due settimane in Patagonia e due settimane in barca ai Caraibi, perché ai bambini bisogna fargli fare un po’ di mare e un po’ di montagna.
I papà moderni devono lavorare 12-14 ore al giorno per 11 mesi l’anno perché devono pagare lo skipper del catamarano e le tute anti-assideramento usate in Patagonia, perché loro, i papà moderni, in Patagonia ti portano in bassa stagione per risparmiare, solo che lì è inverno polare.
I papà di una volta il mare lo vedevano solo quando andavano a trovare i figli alla colonia marina di Pietra Ligure: due domeniche al mese; la nonna si lamentava sempre e diceva che secondo lei il mare di Pinarella di Cervia, che aveva visto in cartolina, era più bello.
Il mio papà il resto della vacanza lo usava per imbiancare la casa, riparare le tapparelle e giocare a carte alla bocciofila Combattenti e Reduci; la nonna diceva che il nonno era più bravo del papà a giocare a briscola.
I papà moderni lavorano tanto e regalano ai figli l’iPhone. Se i figli dei papà moderni non telefonano quattro volte al giorno, non mandano una mail, non inviano un filmato della lezione di judo e non twittano al papi prima e dopo i pasti, i papà moderni si preoccupano e vanno dallo psicologo perché non riescono ad avere un buon rapporto con i loro figli.
I papà di una volta,se arrivava il vicino a dirgli che era arrivata una telefonata per loro, chiedevano preoccupati se era morta la nonna. Ai papà di una volta se gli arrivavano due telefonate in un anno erano autorizzati a vantarsi un pochino, e in mensa gli facevano un brindisi. Alla terza telefonata la nonna si lamentava e diceva che si era persa la virtù del silenzio.
Quando i papà moderni accompagnano i figli alla partita di calcio del sabato pomeriggio, riescono a litigare con l’arbitro, con l’allenatore e con i papà della squadra avversaria; i sabati che il figlio perde litigano anche con il magazziniere, con il posteggiatore, con il figlio stesso e con la moglie e la nonna poi a casa.
Un sabato la mia squadra ha perso il derby contro il Busto Garolfo, mio papà è stato zitto fino a casa, poi ha trangugiato un Fernet Branca, ha acceso una nazionale senza filtro e mi ha detto: «Allenati a palleggiare e a tirare le punizioni, storia e matematica li farai la settimana prossima».
I papà moderni quando un figlio torna da scuola con un 4, denunciano il professore per mobbing.
I papà di una volta, se tornavi a casa con una nota da firmare, loro scrivevano sul diario «bravo prof, raddrizzi la schiena a questi invertebrati».
I papà moderni portano i figli a fare magic jumping buttandosi dai ponti dell’autostrada per 250 metri, ma se devono fare le condoglianze alla vicina a cui è morto il marito si cagano sotto.
I papà moderni ti spiegano come si usano le applicazioni su iPhone tipo Shazam o iTorcia, ma non sanno che differenza c’è tra un uovo per fare la carbonara e uno da cui nasce un pulcino.
I papà moderni ti spiegano la differenza tra musica lounge, tecno e ambient, ma non sanno cantarti «Che gelida manina se la lasci riscaldar...» della Bohème . Mio papà, quando andava alla cena dei coscritti, tornava alticcio, come tutti i coscritti, apriva la porta di casa e attaccava l’aria del tenore. La mamma, trattenendo il riso, fingeva di essere la Mimì dell’opera e lasciava paziente che il suo Rodolfo si smarrisse tra le ottave e gli accordi irraggiungibili e si addormentasse vestito. Io e mia sorella eravamo convinti che nostro papà fosse più bravo di Mario Del Monaco.
Quando poi un figlio moderno compie 16 anni, i loro papà li accompagnano in discoteca alle 23 e li vanno a prendere alle 4 del mattino con il Suv.
I papà di una volta piuttosto che mandarti in discoteca si mettevano a studiare con te i verbi irregolari e il genitivo sassone.
Fare i compiti insieme al papà moderno è molto istruttivo: è probabile che ti aiuti a comprendere le equazioni, che sappia i fiumi, i monti e la capitale delle Maldive, e che conosca la differenza tra Valentino e Dolce & Gabbana.
Se facevi i compiti con i papà di una volta eri bocciato di sicuro.
I papà moderni vogliono vestirsi come i loro figli, parlare come loro e vogliono diventare loro amici su Facebook.
I papà moderni sono contenti quando i loro figli accettano di essergli amici su Facebook. Ho sentito la nonna borbottare e diceva che o si fa il papà o si fa l’amico.
Se i figli moderni chiedono: «Papà, cosa preferisci: la pasta o il riso?», loro rispondono: dipende...
Papà, ma tu voti a destra o a sinistra? Dipende...
Se i figli domandano se bisogna sempre dire la verità, i papà moderni rispondono: dipende...
Ma papà bisogna fermarsi per far passare i pedoni sulle strisce? Dipende...
Ma papi, è vero che fa male farsi uno spinello? Dipende...
Papà, ma a te piacciono le donne vero? Dipende...
Mio papà, a cui è sempre piaciuto il risotto, mi ha insegnato cose meravigliose: a fare il presepe, a tifare per l’Inter, a fare il nodo della cravatta, a fare la barba con la lametta, ad andare in bicicletta, a bere un bicchiere di vino tutto d’un fiato, a vestirsi bene la domenica, a essere bravo nel lavoro, a cercare di avere sempre un amico, a portare un mazzo di fiori ogni tanto a tua moglie, a ricordarsi dei nonni e dei nostri morti, perché noi senza di loro non ci saremmo, perché Giacomo è figlio di Albino il fresatore, che era figlio di Domenico il mezzadro, figlio di Adriano il ciabattino che era figlio di Giuseppe il falegname figlio di Giosuè lo stalliere...
Dalla prima elementare alle terza media si fa di tutto per assomigliare e imitare il papà, dai 15 anni ai 22 non lo puoi vedere, fino ai 36 ti è abbastanza indifferente, verso i 40 ti fa incazzare da morire perché nel frattempo lui ha superato i settanta e se in gioventù aveva il suo bel carattere adesso è ostinato come tutti gli anziani, dai 42 in avanti riesci a capire quanto sforzo abbia fatto a studiare l’inglese con te e ne provi una tenerezza struggente.
Ho cercato tutta la vita di non assomigliare a mio papà e ora invece mi accorgo di essere uguale: me ne sono accorto quando mio figlio l’altro giorno mi ha chiesto come si dice centravanti in inglese.
venerdì 23 marzo 2012
mercoledì 21 marzo 2012
Nascere d'inverno
Siete
della Bilancia, dello Scorpione, del Sagittario, del Capricorno o
dell’Acquario ? Secondo uno studio su 870 ragazzi e 653 ragazze con età
compresa fra 10 e 17 anni pubblicato su Psychiatry Research
dall’Università di Bologna avete un maggior rischio di depressione
legato alla fotoperiodicità luminosa particolarmente corta della
stagione invernale in cui siete nati. Come scriveva il grande poeta
Shelley «Bright reason will mock thee, like the sun from a wintry sky»,
la luce della ragione si farà gioco di te come il sole da un cielo
invernale.
L’effetto
sulla psiche, verificato attraverso i punteggi riportati al GSS
(acronimo di Gobal Seasonality Score, cioè scala di stagionalità
globale) sembra mantenersi, soprattutto nelle ragazze, per tutta
l’infanzia e l’adolescenza impartendo una spiegazione scientifica a
tante indicazioni astrologiche che hanno sempre attribuito a questi
segni una spiccata sensibilità agli eventi della vita. Se questo dato
sarà confermato, potrebbe portare a una maggiore attenzione verso la
malattia dell’anima dei nativi di questi segni zodiacali in termini di
prevenzione.
GLI STUDI - Da alcuni anni gli
psicologi dell’Università di Bologna, in collaborazione con colleghi di
altri atenei italiani e stranieri, stanno studiando la correlazione fra
data di nascita e sviluppo di depressione, prima in via retrospettiva
negli adulti e adesso anche i maniera prospettica nei giovani. Nel 2007
uno studio analogo pubblicato su Affective Disorders aveva fornito
risultati simili su 1709 ragazzi fra 10 e 25 anni. Lo strumento
utilizzato per valutare il rischio di depresione legato al segno zodiacale è il cosiddetto SPAQ-CA, acronimo di Seasonal Pattern Assessment Questionnaire for Children and Adolescents,
cioè questionario di valutazione dell’influenza stagionale per bambini e
adolescenti. E’ derivato dalla sua versione originale (SPAQ) messa a
punto per gli adulti dal gruppo dell’Università del Maryland di
Baltimora diretto da Norman Rosenthal, padre della depressione
stagionale (nota con la sigla SAD) e del suo trattamento tramite light
therapy (terapia con bagni di luce). La SPAQ è composta da 6 blocchi,
ognuno con varie sottodomande, da un minmo di 2 a un massimo di 10,
mentre la SPAQ-CA (CA sta per children e adolescent, cioè bambini e
adolescenti) è più semplice con solo 3 blocchi e meno domande:
1) segnare con un cerchietto la x del mese o dei mesi in cui si hanno
energie al minimo, si è più irritabili o ci si sente peggio.
2) qualche attività come sonno, umore, peso, attività sociale cambia in base al mese?
3) provi delle variazioni nell’arco delle stagioni? Pensi che ciò sia per te un problema minimo, sopportabile o grave?
Chiunque può fare questo
test per avere un’indicazione generale sugli aspetti che più contano
per questo tipo di valutazione, ma l’interpretazione dei risultati è
affidata agli psicologi che, analizzando migliaia di risposte, hanno
definito, ancor prima che il recente studio dell’Università di Bologna
rintracciasse una correlazione “astrologica” con la depressione, varie
personalità stagionali. Ad esempio nel New Hampshire (42 gradi Nord)
un’elevata percentuale di persone sta peggio d’inverno rispetto a quelli
della Florida (52 gradi nord). Più ci si avvicina all’equatore meno si
sopporta l’estate: nella Florida del sud la percentuale è molto alta,
verosimilmente per colpa dell’afa e dell’umidità. Le cosiddette
personalità invernali, invece, durante l’inverno mangiano e dormono di
più, ingrassando di conseguenza, mentre d’estate fanno il contrario e in
quei mesi trovano più facile stringere amicizie e stare con gli altri,
tutte cose che in inverno non riescono a fare nonostante le numerose
occasioni di festa come il Natale.
lunedì 19 marzo 2012
Un orto in inverno
Vi interessa il giardinaggio? Avete un orto in casa? Per non provate a coltivare delle verdure invernali?
venerdì 16 marzo 2012
mercoledì 14 marzo 2012
Trieste e altre città dimenticate
In una celebre poesia, Umberto Saba, il suo più illustre
cantore, ne descriveva la "scontrosa grazia" e la paragonava a un amore
reso inquieto dalla gelosia. Forse è proprio questa bellezza brusca e
schiva che rende Trieste una delle città più affascinanti del mondo, ma
poco apprezzata da chi vive fuori dai suoi confini. In una recente
classifica, pubblicata sul sito web della Lonely Planet,
il capoluogo del Friuli-Venezia Giulia si piazza al primo posto tra le
città più belle e allo stesso più ignorate dai turisti internazionali
Il sito della casa editrice australiana,
specializzata in guide turistiche, afferma che nonostante esistano città
d'inconfondibile fascino e di estrema bellezza, capita che alcune di
queste siano incredibilmente trascurate e poco battute dai turisti. I
motivi sono molteplici. A volte è la loro posizione geografica, lontana
dai tradizionali percorsi turistici a renderle poco attraenti, mentre
più spesso è la presenza, a poche decine di chilometri, di metropoli più
glamour e famose a indurre i vacanzieri a ignorarle completamente.
Perchè - si chiede la Lonely Planet - Trieste non è fra i must del
turismo internazionale? Descritta come una città «inusuale» e celebrata
per il suo melting pot culturale, Trieste «conserva un seducente senso
elegiaco del passato» ed è ricca di splendore asburgico grazie alle sue
caffetterie viennesi e alla sua singolare cucina mitteleuropea. Infine
l'articolo della Lonely
Una veduta di piazza Unità d'Italia
Planet ricorda che il capoluogo del Friuli-Venezia Giulia oltre a
presentare un immenso lungomare in stile neoclassico è stato a lungo il
porto chiave dell'impero austro-ungarico ed è anche il luogo dove James
Joyce ha iniziato a scrivere l'Ulisse, forse l'opera più importante del
'900.
Alle spalle di Trieste si piazza Arras,
borgo transalpino di circa 46 mila anime. Quest’angolo dimenticato nel
nord della Francia presenta una splendida architettura
fiammingo-spagnola e ospita ben 22 km di tunnel sotterranei scavati dai
soldati durante la Prima Guerra Mondiale. Sul gradino più basso del
podio troviamo non una città, ma un intero stato, il Gujarat, nel nord
dell'India che troppo spesso è ignorato dai vacanzieri per la sua
estrema distanza dai più tradizionali itinerari turistici. Eppure gli
esperti della Lonely Planet consigliano caldamente di visitare questo
territorio per ammirare le sue innumerevoli attrattive tra le quali
l'affascinante isola di Diu, un tempo colonia portoghese e le piane di
sale nell'area desertica del Piccolo Rann di Kutch, abitate dai
fenicotteri e dagli asini selvaggi indiani. Seguono Chongqing, la più
estesa città della Cina bagnata dal Fiume Azzurro e divisa tra la
modernità dei suoi grattacieli e la nostalgia delle vecchie imbarcazioni
ancorate nel porto, la scozzese Aberdeen, la "città di granito" che
presenta una spiaggia graziosa e sabbiosa e che non è molto lontana dal
castello Dunottar, il forte sulla scogliera dove Franco Zeffirelli nel
1990 ambientò il suo Amleto. Al sesto posto si piazza l'olandese
Utrecht, il cui centro storico è circondato da un canale medievale ed è
ricco di caffè bohémien, al settimo troviamo Meknès, città imperiale
marocchina poco distante dalle antiche rovine romane di Volubilis e
quindi la capitale finlandese Helsinki, ricca di edifici in stile
liberty e nella quale da giugno ad agosto quasi tutte le notti splende
il sole. Chiudono la top ten l'andalusa Jerez de la Frontera, patria del
flamenco e dello sherry e Takayama, piccolo cittadina nipponica che con
i suoi mercatini mattutini e le sue casette in legno ha conservato
tante caratteristiche del Giappone dei secoli passati
lunedì 12 marzo 2012
Il bollito
Seppur semplice, questo piatto non scampa al rischio di essere
trasformato in un lesso insignificante, quando si trascurano i dettami
fondamentali del buon lesso. Innanzitutto, vi è la scelta attenta della
cerne: la parte migliore del bue è quella anteriore, poichè trattiene
bene ogni tipo di condimento; dev'essere ben frollata ed avere qualche
venatura di grasso. I tagli sono quindi: spalla, caramella (pancia e
costato), tenerone (collo).
Sconsigliabile, invece, usare il filetto e la fesa.
Ci sono dunque le parti meno nobili che, però, danno al bollito il suo sapore particolare: la coda, la lingua e la testina, cioè la parte della guancia.
Il bollito misto prevede, infine, anche una gallina ed un cotechino.
La letteratura gastronomica insegna che la carne va buttata nell'acqua già in ebollizione. In realtà, però, è la proporzione tra acqua e carne la cosa più importante: i tagli, infatti, devono essere disposti in modo che occupino tutto lo spazio della pentola (meglio se di alluminio, materiale che scalda con la giusta velocità). L'ideale è mettere tanta acqua quanta carne; in ogni caso non si devono superare i due litri per chilo.
Se si seguono questi accorgimenti, basterà aggiungere poco sale e nient'altro, escludendo persino il mazzetto delle verdure.
La cottura deve essere lenta, dalle due alle tre ore, ma i tempi non sono uguali per ogni pezzo; alcuni sostengono che la testina (più tenera del resto) dovrebbe essere cucinata in una pentola a parte, così come il cotechino, che, invece, impiega più tempo a cuocere rispetto ai pezzi di carne. Altri preferiscono mettere tutto nella stessa pentola, per far sì che i sapori si fondano. Una formula, quest'ultima, che, oltretutto, è più praticabile da chi prepara il bollito a casa; in questo caso l'accortezza sta nel tenere sott'occhio la cottura dei vari pezzi per evitare che alcune parti si sfilaccino ed altre rimangano dure.
Una volta pronto, il bollito va servito ben caldo e può essere accompagnato da contorni di verdure (purè di patate, spinaci al burro, carote, zucchine e cipolline brasate) e, soprattutto, dalle salse, chiamate bagnèt.
Sconsigliabile, invece, usare il filetto e la fesa.
Ci sono dunque le parti meno nobili che, però, danno al bollito il suo sapore particolare: la coda, la lingua e la testina, cioè la parte della guancia.
Il bollito misto prevede, infine, anche una gallina ed un cotechino.
La letteratura gastronomica insegna che la carne va buttata nell'acqua già in ebollizione. In realtà, però, è la proporzione tra acqua e carne la cosa più importante: i tagli, infatti, devono essere disposti in modo che occupino tutto lo spazio della pentola (meglio se di alluminio, materiale che scalda con la giusta velocità). L'ideale è mettere tanta acqua quanta carne; in ogni caso non si devono superare i due litri per chilo.
Se si seguono questi accorgimenti, basterà aggiungere poco sale e nient'altro, escludendo persino il mazzetto delle verdure.
La cottura deve essere lenta, dalle due alle tre ore, ma i tempi non sono uguali per ogni pezzo; alcuni sostengono che la testina (più tenera del resto) dovrebbe essere cucinata in una pentola a parte, così come il cotechino, che, invece, impiega più tempo a cuocere rispetto ai pezzi di carne. Altri preferiscono mettere tutto nella stessa pentola, per far sì che i sapori si fondano. Una formula, quest'ultima, che, oltretutto, è più praticabile da chi prepara il bollito a casa; in questo caso l'accortezza sta nel tenere sott'occhio la cottura dei vari pezzi per evitare che alcune parti si sfilaccino ed altre rimangano dure.
Una volta pronto, il bollito va servito ben caldo e può essere accompagnato da contorni di verdure (purè di patate, spinaci al burro, carote, zucchine e cipolline brasate) e, soprattutto, dalle salse, chiamate bagnèt.
venerdì 9 marzo 2012
Scaramanzia
Venerdì 17. E per di più di un anno bisestile. Potessero, i più
superstiziosi cancellerebbero volentieri questa data dal calendario di
febbraio 2012. Costretti, come saranno, a trascorrere la giornata alle
porte evitando malocchio e iatture. Per chi, invece, scaramantico
proprio non è l'appuntamento è con il Cicap, il Comitato italiano per il
controllo sul paranormale. Che per venerdì 17 febbraio ha organizzato in tutta Italia (per il quarto anno consecutivo) una giornata anti-superstizione:
incontri seri sull'argomento ma anche iniziative leggere, come flashmob
in diverse città d'Italia (a Milano l'appuntamento è in Galleria vicino
al toro porta-fortuna) in cui, volutamente, si metteranno in scena
tutti quei comportamenti che i superstiziosi reputano pericolosi.
Passare sotto una scala, rompere degli specchi e, perché no, magari
anche attraversare dopo il passaggio di un gatto nero (nel giorno che è anche quello dedicato in tutto il mondo ai teneri amici a 4 zampe)
. «Tanta gente crede a rituali privi di fondamento e si fa condizionare
negativamente la vita», spiega il segretario Cicap Massimo Polidoro. E
questo vale tanto più in un momento di crisi, in cui «è facile che le
persone si rivolgano all'irrazionale e si affidino a chi promette
soluzioni facili». In Italia poi, stando agli ultimi rilevamenti di
Eurobarometro, 58 persone su 100 ammettono di essere attratte da «idee
irrazionali e superstizioni» e in Europa solo lettoni e cechi sono più
scaramantici di noi.
RITI ANTI-JELLA - Sfortunatamente (è proprio il caso di dirlo)
c'è chi alla jella del venerdì 17 davvero ci crede. Tra vip e politici i
riti anti-iattura si sprecano (come riporta un libro del 2011, «Il metodo antisfiga - Le scaramanzie dei vip» scritto da Gian Maria Aliberti Gerbotto).
E chissà allora cosa farà ad esempio Iva Zanicchi, abituata a salire
la scaletta dell'aereo sempre con il piede sinistro o come si comporterà
l'ex miss Italia Miriam Leone, così scaramantica da tenere sempre in
borsa un baffo del suo micio. Chissà con chi mangerà il cuoco Gianfranco
Vissani, lui che non apparecchia mai per tredici.
Mario Monti vedrà Angela Merkel a Roma.
Venerdì 17, ore 12, Palazzo Chigi. I superstiziosi avrebbero evitato di
fissare un appuntamento così importante in un giorno così... jellato. Il
premier italiano però non pare curarsi della particolare data. «Se
fosse per la scaramanzia non avrei invitato la Cancelliera», ha detto
intervistato da Sky Tg24. Eppure la paura per i gatti neri dell'attuale
presidente del Consiglio è cosa nota. «Vuole sapere una cosa veramente
ridicola - svelò Monti a una giornalista dell'Espresso qualche
tempo fa-? Ho paura dei gatti neri che attraversano la strada. Specie se
provengono da sinistra. Non me ne chieda la ragione, ma è così». A
Palazzo Chigi si saranno già attrezzati?
martedì 6 marzo 2012
Regole di calcio
Nel Paese delle mille moviole e dei processi del lunedì si deve
essere armati davvero di tanta pazienza per armarsi di fischietto e
cronometro e arbitrare le partite di calcio. Chi sogna di diventare Collina,
ad esempio, deve sapere che prima di arrivare al mondo dei
professionisti sarà costretto a passare per quella dimensione parallela
che è il calcio dilettantistico. Dai comunicati disciplinari emanati dai
giudici sportivi delle delegazioni regionali della Lega calcio,
infatti, si capisce di essere in un mondo a parte, in cui anche
l’anziano massaggiatore può trasformarsi in un accanito ultras. Ce n’è
per tutti i gusti.
Una sezione a parte meriterebbero le multe che vengono comminate per le intemperanze dei tifosi,
in qualche caso davvero originali. Quelli del Pompei, ad esempio, “al
ventesimo del secondo tempo bagnavano con dell’acqua il direttore di
gara”. Intento simile dovevano avere i giocatori della Palmese, che
“lanciavano diverse bottiglie di plastica verso l’arbitro, senza
colpirlo”. Per quanto riguarda i tifosi e le multe per i loro
comportamenti, vanno per la maggiore gli sputi, le minacce nei confronti
del direttore di gara, l’uso di fumogeni e fuochi d’artificio e le
offese tra tifoserie. Ma c’è anche di meglio, la formazione irpina del Cervinara che
nella stagione 2000/2001 si vide comminare una multa poiché, sul campo
del San Giorgio del Sannio, “propri sostenitori lanciavano vino
all’indirizzo dell’assistente arbitrale”.
Anche i dirigenti sono spesso al centro delle valutazioni della giustizia sportiva.
Spesso si tratta di facinorosi, ma talvolta anche di persone dotate di
una buona dose di spirito cavalleresco. Come quello di un esponente di
squadra casertana che “a fine gara si introduceva nello spogliatoio
dell’arbitro inveendo contro di esso e percuotendo i suoi oggetti perché
a suo dire in questo modo evitava di percuotere il direttore di
gara”. Ai ‘suoi oggetti’ non doveva tenere molto Giovanni Garofalo,
dirigente del Napoli Sanità, colpito dall’inibizione a svolgere ogni
attività sportiva poiché “ingiuriava e minacciava l’assistente arbitrale
e inoltre gli lanciava contro un telefonino”. Molte volte, inoltre,
sono futili le motivazioni che causano la rabbia dei dirigenti: “A fine
gara – si legge in un altro referto arbitrale – il dirigente si
introduceva di forza nello spogliatoio del direttore di gara, colpendolo
con un calcio e con schiaffi al volto richiedendo di cancellare
l’ammonizione ad uno dei suoi tesserati”.
Partita persa invece per la squadra juniores del Montesarchio,
in provincia di Benevento, poiché “all’atto dell’assegnazione di un
calcio di rigore della squadra avversaria, un dirigente entrava in campo
portando via il pallone, affermando che fosse suo e non si dovesse più
giocare”. L’educazione, spesso, è rara anche nei protagonisti
principali, i giocatori, sebbene in alcuni casi qualche
segno di ravvedimento c’è: “Il calciatore – questo il rapporto del
direttore di gara – dopo essere stato espulso si rifiutava di
abbandonare il terreno di gioco, ingiuriando l’arbitro e cercando di
colpirlo con calci e pugni, non riuscendovi perché trattenuto dai
compagni. Dopo aver lasciato il campo e preso posto sugli spalti
continuava a ingiuriare e minacciare il direttore di gara. A fine
partita, introducendosi nello spogliatoio dell’arbitro lo pregava, con
fare gentile, di cancellare la sanzione e di non scrivere nulla
dell’accaduto”. Tre giornate di squalifica per lui: avrà avuto il suo peso il “fare gentile”.
Tre gare di squalifica anche per il calciatore Salvatore Pace,
del Senise, in Basilicata. Cosa ha fatto? “Appoggiava la testa a quella
dell’arbitro, senza conseguenze”. Più lunga l’assenza dai campi di
gioco quando invece le conseguenze ci sono. Non solo per l’arbitro,
però, ma anche per gli strumenti del mestiere. In Toscana, ad esempio, a
un giocatore del River Pieve, Francesco Vecchi, il
giudice ha affibbiato due anni di squalifica, poiché “improvvisamente –
afferma la motivazione – lo colpiva violentemente all’avambraccio
facendogli cadere a terra il fischietto e lo calpestava con
rabbia”. Sette gare di squalifica invece per Alfonso Panico,
calciatore dei casertani del Teverola, poiché “a fine gara,
rivolgendosi al pubblico, abbassava i pantaloncini, mostrando le proprie
nudità in segno di scherno”. Tentava probabilmente di emulare Eric Cantona, invece, Fabio Aglione,
calciatore della Vis Capua, squalificato per tre partite “per essersi
aggrappato alla rete di recinzione e tentato di colpire con uno schiaffo
un tifoso ospite, reo di averlo insultato”.
Minacce, botte e
intemperanze non mancano nei campionati giovanili: anche in quei casi i
giudici hanno il loro bel da fare per comminare sanzioni a bambini, ai
loro allenatori spesso violenti nei confronti dei direttori di gara e
agli ultras, ovvero i genitori che si infiammano nel
vedere i figli all’opera. Se è chiaro che esiste un lato comico causato
dall’indisciplina nel calcio “pane e salame” è anche vero che è sottile
il confine tra comicità e tragedia: sono all’ordine del giorno vere e
proprie aggressioni agli arbitri, botte tra i tifosi, che sfociano in
eventi come la morte di Ermanno Licursi, dirigente di una squadra calabrese di terza categoria, ucciso in una rissa negli spogliatoi. Champion’s League
o Terza Categoria, Giovanissimi o Over 60 il calcio in Italia infiamma
troppo. E nemmeno la religione aiuta: una tremenda rissa ha macchiato
perfino la Clericus Cup, il torneo del Vaticano.
di Cristiano Vella
domenica 4 marzo 2012
Sesso in macchina
La crisi economica e l'aumento della disoccupazione, soprattutto tra i
giovani, sono fenomeni che in questo periodo colpiscono quasi tutti i
paesi europei. Ma solo a Napoli la conseguenza dell'inarrestabile
aumento dello spread è il ritorno di una tradizione che risale agli anni
Sessanta: l'amore in auto.
Al rito del sesso sotto il tettuccio il quotidiano britannico The Independent dedica oggi un lungo articolo dove l'autrice spiega come quella che negli anni '80 erano un'abitudine consolidata delle coppiette napoletane (e non solo) sia tornata di moda nonostante una recente sentenza della Cassazione prevede una pena fino a tre anni di galera per chi fa sesso in macchina senza oscurare i finestrini.
Il quartiere dell'amore a Napoli, oggi come negli anni Sessanta, quando la chiusura dei bordelli portò gli innamorati per strada, si dispiega tra la collina del Vomero e l'elegante Posillipo. Solo che una volta il luogo prediletto dagli innamorati, cui rende omaggio anche un'esilarante scena del film di Luciano De Crescenzo Così parlò Bellavista, era il Parco della Rimembranza, da cui si può godere di una spettacolare vista del golfo. Oggi le coppiette si sono spostate nella vicina via Manzoni, dove di recente è tornato il via vai di auto notturno.
Una differenza con il passato c'è però, sottolinea l'Independent: una volta i ragazzi per aggirare i pudori delle loro fidanzatine fingevano di essere arrivati per caso nella strada dell'amore mentre erano alla ricerca di un punto panoramico, mentre oggi i giovani ci vanno consapevolmente.
Sarà l'aumento della disoccupazione giovanile nel Sud Italia (oltre il 40% nel 2010) e il fatto che i due terzi dei giovani tra i 18 e 34 anni sono costretti a rimanere a casa con i genitori. Quello che gli anni e la tecnologia non sono riusciti a modificare lo racconta al quotidiano britannico Lino: «I tempi sono cambiati, oggi si possono reclinare i sedili. Ma il cambio rimane una grande scocciatura...».
Al rito del sesso sotto il tettuccio il quotidiano britannico The Independent dedica oggi un lungo articolo dove l'autrice spiega come quella che negli anni '80 erano un'abitudine consolidata delle coppiette napoletane (e non solo) sia tornata di moda nonostante una recente sentenza della Cassazione prevede una pena fino a tre anni di galera per chi fa sesso in macchina senza oscurare i finestrini.
Il quartiere dell'amore a Napoli, oggi come negli anni Sessanta, quando la chiusura dei bordelli portò gli innamorati per strada, si dispiega tra la collina del Vomero e l'elegante Posillipo. Solo che una volta il luogo prediletto dagli innamorati, cui rende omaggio anche un'esilarante scena del film di Luciano De Crescenzo Così parlò Bellavista, era il Parco della Rimembranza, da cui si può godere di una spettacolare vista del golfo. Oggi le coppiette si sono spostate nella vicina via Manzoni, dove di recente è tornato il via vai di auto notturno.
Una differenza con il passato c'è però, sottolinea l'Independent: una volta i ragazzi per aggirare i pudori delle loro fidanzatine fingevano di essere arrivati per caso nella strada dell'amore mentre erano alla ricerca di un punto panoramico, mentre oggi i giovani ci vanno consapevolmente.
Sarà l'aumento della disoccupazione giovanile nel Sud Italia (oltre il 40% nel 2010) e il fatto che i due terzi dei giovani tra i 18 e 34 anni sono costretti a rimanere a casa con i genitori. Quello che gli anni e la tecnologia non sono riusciti a modificare lo racconta al quotidiano britannico Lino: «I tempi sono cambiati, oggi si possono reclinare i sedili. Ma il cambio rimane una grande scocciatura...».
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