A quasi otto anni da quel giorno nero d’autunno, il 29 novembre
2004, le profezie di Luigi Veronelli si sono avverate. Il grande
archivio con i suoi scritti è stato finalmente sistemato dopo la morte
del cultore di vini, filosofo del piacere e polemista per mezzo secolo.
In quelle pagine che arrivano dalla sua casa «alta su Bergamo alta» ci
sono insieme il presagio e il percorso per il Rinascimento del vino
italiano. Partendo dai vignaioli, dai contadini, dagli uomini e le donne
(«amiche paritarie» le chiamava decenni prima delle quote rosa) con
l’anima avvolta dalla terra. Gian Arturo Rota, che di Veronelli è stato
collaboratore per vent’anni, si è fatto largo nel labirinto di appunti e
bozze di libri e tracce di articoli. E partendo da lì ha ideato, con la
famiglia Veronelli, il primo convegno sul pensiero del gastronomo che
forse più di ogni altro ha influenzato la cultura alimentare del
Novecento in Italia.
L’incontro «di riflessione sulle sue geniali e profonde intuizioni utili a capire il presente e progettare il futuro» si terrà il 24 maggio all’università di Scienze gastronomiche a Pollenzo. Carlo Petrini, fondatore di Slow food, sarà il padrone di casa.
Negli anni Cinquanta (e pure dopo), prima di diventare famoso anche grazie a una indimenticata trasmissione pop-intellettuale di educazione alimentare sulla Rai con Ave Ninchi, A tavola alle 7, l’Italia del vino appariva a Veronelli un triste impero per industriali. Vedeva «l’ignobile dottrina dei vini di massa, gli impianti stesi per produzioni mostruose e le vuote sfilate di cisterne inox». Ispirandosi ai francesi, coinvolse i piccoli spronandoli a valorizzare i vitigni autoctoni, a usare i carati (le botticelle che i francesi chiamano barriques), a ridurre le rese in vigna per aumentare la qualità.
L’incontro «di riflessione sulle sue geniali e profonde intuizioni utili a capire il presente e progettare il futuro» si terrà il 24 maggio all’università di Scienze gastronomiche a Pollenzo. Carlo Petrini, fondatore di Slow food, sarà il padrone di casa.
Negli anni Cinquanta (e pure dopo), prima di diventare famoso anche grazie a una indimenticata trasmissione pop-intellettuale di educazione alimentare sulla Rai con Ave Ninchi, A tavola alle 7, l’Italia del vino appariva a Veronelli un triste impero per industriali. Vedeva «l’ignobile dottrina dei vini di massa, gli impianti stesi per produzioni mostruose e le vuote sfilate di cisterne inox». Ispirandosi ai francesi, coinvolse i piccoli spronandoli a valorizzare i vitigni autoctoni, a usare i carati (le botticelle che i francesi chiamano barriques), a ridurre le rese in vigna per aumentare la qualità.
«Era l’unico modo, ed ora si è capito che aveva ragione per cancellare — così ripeteva — lo svantaggio sui «nos amis de France, dovuto alla mancanza di legislatori validi e di una scuola enologica capace di avvertire il futuro». Insegnò a non usare tutta l’uva assieme, ma a separare quella dei vigneti migliori, in grado di dare caratteristiche diverse al vino. Sono nati così i primi cru italiani, negli anni Settanta. E le industrie si sono adeguate, creando le piramidi della qualità, il vino venduto a milioni di bottiglie c’è ancora, ma accanto
Ha avuto la capacità, prima ancora intellettuale che organolettica,
di parlare ai contadini», ragiona Carlo Petrini, ricordando l’ultima
telefonata con Veronelli. «Stavo organizzando il primo Terra Madre,
l’evento dedicato ai contadini del mondo. Mi chiamò e disse: tu hai
realizzato il mio sogno. Per tutta la vita ha insistito sulla forza del
legame di un contadino con la sua terra per ottenere il Rinascimento del
vino». ci sono i cru. Epiche le sue battaglie: quella per l’«obbligo
delle etichette veritiere, pena confisca». O quella per il «prezzo
sorgente», ovvero l’indicazione nell’etichetta del costo base del vino
in modo da impedire rincari eccessivi ai ristoratori. Facendo capire,
all’Italia delle damigiane e delle caraffe d’osteria, che il vino di
qualità si deve pagare, ma evitando speculazioni. E poi l’invenzione del
federalismo della tutela alimentare, con le De.Co., le denominazioni
comunali decise paese per paese. E ancora il lungo impegno per l’olio
extravergine italiano. Battaglie mai per ragioni di mercato, sempre per
scelta intellettuale, «libertaria» diceva, perché «il vino è un valore
reale che ti dà l’irreale, adatto agli individui e non alle masse». E lo
faceva capire con il suo stile di scrittura (emulato da mille seguaci)
dotto, a tratti arcaico, ricco di citazioni di poeti del Duecento,
santi, pensieri kantiani o hegeliani. Era capace di sentire in un
Brunello «l’abbraccio di una sinfonia di Mahler», ma aveva abolito i
voti dalle sue Guide provandone «disgusto».
«Un’idea del vino e del cibo come forma d’arte e creatività — sintetizza Sandro Chia, scultore della Transavanguardia e produttore di Brunello di Montalcino —, la sua era una filosofia dell’essere».
«Era il poeta del vino mondiale — dice Josko Gravner, il vignaiolo del Collio friulano che ha sostituito le botti con le sue leggendarie anfore —. Venne a trovarmi nel 1982, ero un contadino sconosciuto, nessuno badava a quelli come me. S’informò sulla mia Ribolla, disse di continuare perché quel vitigno aveva mille anni di storia qui. Ha dato la forza ai piccoli di crescere, seguendo terra e natura e non le mode».
Ora quei vignaioli scovati ed elevati da Veronelli, «duri, lividi,
con le toppe al culo, umiliati», vendono in tutto il mondo. Come quelli
del Nerello Mascalese della cui scoperta scrisse in una delle ultime
apparizioni della rubrica «Agrodolce» sul Corriere. Otto anni dopo quel giorno nero d’autunno, Antonio Galloni,
il delfino di Robert Parker di Wine Advocate, dice che quel Nerello è
il futuro migliore dell’Italia del vino. L’ultimo omaggio alle profezie
di Veronelli.
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