mercoledì 26 aprile 2017

Il 25 aprile a tavola

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(foto da internet)

 


Rape, pane nero. Cipolle. Il riso e, qualche volta, la pasta. Soprattutto polente, minestre, zuppe e, in montagna, quanto il bosco poteva offrire con una certa generosità. Come le castagne e i frutti selvatici.
Il mangiar partigiano, alla vigilia della Liberazione, è stato soprattutto cucina di sostentamento, in parte di contrabbando con le borgate che rifornivano i "ribelli" appoggio e sostegno (anche alimentare) al prezzo di un altissimo rischio: quello di venire fucilati dalle milizie nere. Il ricordo di quella lotta, oggi ha un piatto simbolo, in realtà molto lontano dal rancio dei giovani resistenti: è la pastasciutta antifascista, protagonista indiscussa di una miriade di eventi che, da un capo all’altro della penisola, festeggiano la rinascita democratica.

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(foto da internet)
 
Tutto nacque per caso: non il 25 aprile 1945, bensì il 25 luglio di due anni prima, altra data simbolo, poiché segnò la caduta del fascismo dopo e la sfiducia del Gran Consiglio a Benito Mussolini: a Campegine, un piccolo borgo della provincia emiliana, oggi vicino all’autostrada del Sole, dove la famiglia Cervi, per festeggiare la fine della dittatura, insieme ad altre famiglie portò in piazza la pastasciutta nei bidoni del latte, offrendola a tutti i gli abitanti del paese. E quel piatto di maccheroni conditi con burro e formaggio fu davvero – per quel periodo di privazioni – un piatto della festa.
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(foto da internet)


Oggi in Italia c’è addirittura una rete nazionale dedicata alla pastasciutta antifascista. Il rapporto tra questo piatto nazionale e il regime, del resto, non è mai stato dei migliori: la pastasciutta, infatti, assume una particolare simbologia antifascista anche a seguito della sua messa al bando da parte del Manifesto della Cucina Futurista di Tommaso Marinetti, che la definisce “assurda religione gastronomica italiana”, da cui deriverebbero “fiacchezza, pessimismo, inattività nostalgica e neutralismo”. Tralasciando il particolare che lo stesso Marinetti ne andava ghiotto, alla povera pasta (e ai poveri commensali) non fu risparmiato nemmeno il tentativo di rinominare il nobile e antico ragù con l’orrenda locuzione di ragutto.

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(foto da internet)

Italianizzare il lessico della gastronomia divenne ben presto una priorità assoluta per gerarchi e funzionari del regime, già a partire dai tempi delle "inique sanzioni" decise dalla Società delle Nazioni ai tempi della guerra in Abissinia. Ecco dunque apparire nel menù di gala (anzi, lista delle vivande o, più militarmente, rancio) piatti come antipasto Vittoria, cannelloni alla combattenti e spinaci all’imperiale. E, a lungo andare, il tentativo di annientare le influenze culinarie della "perfida Albione" e dei suoi alleati (specie i malsopportati cugini francesi), sfociò ancor più nella tragicommedia: il consommè si ridusse in consumato, l’omelette in frittata avvolta, roumpsteack ed entrecote si trasposero nella più virile braciola.
E, ancora, gonfiato anziché soufflè, legumi minuti anziché julienne, infuso di vino e non più salmì. La brioche s’afflosciò in brioscia (da non confondersi con il croissant: cornetto), il toast diventò pantosto, Persino nelle buvette (pardon, mescite) le polibibite sostituirono, specie nell’accezione futurista, i cocktail. Anche le cene di rappresentanza non era più impreziosite dai troppo effimeri cotillons quanto, invece, dai più arditi cotiglioni. Insomma, i linguisti del Ventennio si fecero prendere la mano e, col tempo, non venne risparmiato nemmeno l’alleato germanico, che si vide ribattezzare come bombole i krapfen, mentre i wafer divennero semplicemente biscotti e i wurstel quali semplici salsicce.
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(foto da internet) 

Il rapporto tra Mussolini e la cucina, lo riassume lui stesso: “Ho fatto del mio organismo un motore sorvegliato e controllato che marcia con assoluta regolarità. Le mie regole dietetiche sono fisse, i miei pasti sono frugali”. Poca pasta, tanto riso e, naturalmente le zuppe: toccasana, in tempo di privazioni, tanto che nel 1943 l’Almanacco della Cucina, editore Sonzogno offre alle lettrici la ricetta di una “zuppa alla borghese” particolarmente ricca, stante la situazione contingente, “da farsi con mezzo chilo di piselli, un etto di lardo, 3 litri di brodo, una cipolla un po' arrostita, mezzo etto di burro, un bicchiere di latte, un etto di farina, due uova e, infine, la pasta corta da brodo”. Nel quotidiano si lavorava anche di fantasia: nasce in quel tempo "l'antipasto di guerra a base di carote, prezzemolo, senape, tuorlo di sode, ingredienti con cui formare salsiccini da ricoprire con filetti di acciuga e il rosso delle uova sode”, mentre la celebre Petronilla suggerisce un surrogato del burro “utilizzando grasso di vitello, montone o bue unito a latte, timo, cipolla, succo di carote, sale e costa di pane”. 
Cucina d’autarchia, e di fantasia, fino alla caduta del fascismo. E poi ritorno della pastasciutta.

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